Regia di Olivier Masset-Depasse vedi scheda film
«Soy una raya en el mar, fantasma en la ciudad, mi vida va prohibida, dice la autoridad». Una dozzina d’anni fa così cantava Manu Chao, ritraendo il Clandestino. Canzone ritmata da una malinconica rabbia che suscita indignazione, ma mai pietà. Un po’ come nell’opera bella e dolorosa L’ospite inatteso, e non è un caso, forse, che in quel film la musica avesse un ruolo fondamentale. In lllegal Olivier Masset-Depasse, invece, entra a gamba tesa nel problema della (dis)integrazione, nel dramma dei sans papiers. Come in un film dei Dardenne c’è solo una pennellata di serenità nel ménage di Tania (Anne Coesens, perfetta), bielorussa da 8 anni clandestina in Belgio con il figlio, poi una lettera la e ci precipita nella tragedia. La catarsi, se c’è, è già nell’interno del carcere in cui la chiudono - bellissima la scena isterica e gioiosa nella sala da pranzo della prigione - ed è comunque cupa, atroce. Violenza, repressione, leggi ingiuste, una burocrazia infame (tra Dublin Case e la geografia delle carte bollate), sono gironi di un inferno che viviamo tutti i giorni. Anzi vivono, tra rimpatri, Cpt e affini. Film rigido, ma non frigido. «Peruano clandestino, Africano clandestino, Algerino clandestino, Nigeriano clandestino, Boliviano clandestino, Mano Negra illegal».
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