Regia di Daniele Luchetti vedi scheda film
Un film come La nostra vita lo si apprezza quasi d’ufficio, c’è chi ne parla senza nemmeno averlo guardato per tante ragioni. Nonostante la sceneggiatura di Rulli e Petraglia (da anni si vocifera che dietro di loro c’è un team di sceneggiatori) talmente scritta e precisa da non lasciare molto spazio all’invenzione (nei film romanacci del nostro cinema romanocentrico scritto da romani d’adozione e non, l’improvvisazione è sulla pagina). Nonostante le pesantezze narrative e non (ammettiamolo, non è che tutta la parte sulla scalata del protagonista sia appassionante). Nonostante Elio Germano, il nostro migliore attore giovane, che quasi per paradosso riesce a sfiorare la maniera in un ruolo che gli è congeniale.
Non è un caso che la scena più famosa del film sia quella in cui Elio Germano canta a squarciagola Anima fragile di Vasco Rossi al funerale di Isabella Ragonese (che esce troppo presto di scena ed è una gioia per gli occhi). È indubbiamente una scena d’effetto, perfino toccante, ma è come se fosse l’apoteosi dello stile recitativo di Germano: una sorta di concentrato di tutte le interpretazioni dell’attore, incazzoso e plebeo, calcolato e spontaneo.
Proprio per questo se ne resta distaccati, perché è come se la cosa si fosse già vista, magari in un altro film di Luchetti (ma l’Accio di Mio fratello è figlio unico resta indimenticabile perché unico e raro). Sì, è grande, qua e là immenso, d’accordo, ma nel suo Claudio a volte aggiunge troppo dove bisognerebbe sottrarre, nonostante la borgata romana. È comunque piaciuto alla giuria di Cannes 2010, che gli ha assegnato una Palma d’Oro (ed è un giusto riconoscimento).
Per il resto, per quanto il nostro amato Germano si divori il film senza farsi troppi problemi, Daniele Luchetti dimentica la commedia (genere a cui è maggiormente avvezzo) nonostante in svariate occasioni ci provi a spruzzare il film di elementi brillanti (specie grazie all’insolito ruolo affidato a Raoul Bova, ma anche agli occhi e alla lingua di una splendida Stefania Montorsi) e si fionda diretto nel dramma, immergendosi nella povertà, nel lavoro nero, nella crisi con analitica umiltà e sincero interesse, fotografando palazzine pari ad alveari della disperazione diffusa, mattoni su mattoni, calce e martello, luoghi di cui forse abbiamo rimosso l’esistenza.
Non va sottovalutato il personaggio di Giorgio Colangeli (un altro che, nella sua evidente maestria recitativa, sfiora la maniera), negativo ma nemmeno troppo, con un latente quanto duro senso di colpa: bellissima la sequenza della cena a casa di Claudio, che forse vale l’intero film per come riesce a creare un’atmosfera umida che puzza di miseria lontano un miglio. È l’ultimo film del fonico Bruno Pupparo, che qui forse raggiunge la perfezione sonora.
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