Regia di Daniele Luchetti vedi scheda film
Il film si apre con il primissimo piano di Elio Germano, il miglior attore italiano vivente, con buona pace dei senatori, dei parrucconi e dei teen-idon che rubano il lavoro a chi di questo lavoro davvero si intende: gli artisti. Un’inquadratura quindi dichiarativa con cui il regista ha subito voluto dirci chi è che comanda in questa pellicola, chi ne è il fulcro, il centro, il perno, il nocciolo. Tutto. Perché Elio Germano è tutto. Una fisicità deniriana, come in molti l’hanno già voluto ribattezzare in onore all’attore di Taxi Driver; un viso irregolare, non fine ed elegante come oggi il businness cinematografico richiede ai suoi giovani attori bellini e imberbi, una faccia che a me ricorda da vicino quella del “brutto” Eli Wallach ie Il Buono, il Brutto, il Cattivo. Una voce, quella di Elio, che stride, urla, grugnisce, s’accoppia, incespica, ma ci arriva chiara e tonda perché è un attore che sa modulare i toni come quasi nessuno nel panorama italiano: o tutti tromboni impostati che arrivano dal teatro primitivo e che si ostinano a declamare con enfasi retorica, oppure tutti cialtroni ficcionari, grandi fratelli, naufraghi, veline o infime starlette con un posto in parlamento che sanno solo sussurrare quel fastidioso pathos televisivo per il pubblico ciabattone e non sanno cos’è la dizione, ma sanno benissimo come ingrossare il seno, come avere un culo da favola, come ammiccare allo spettatore e a quali feste e festini vip partecipare e mostrare la loro initule esistenza.
No, Elio il Grande no. Lui è un attore. Non finisce in copertina, no fa gossip. Per questo resta scomodo. Gode di una qualità incredibile, una benedizione: ha un basso profilo mediatico che cerca di tenere tale con la sua sobria presenza nel circo cinematografico. Il nostro Tuco ha una sua fisicità, che può si ricordare quella di Bob De Niro, ma è sua e solo sua. Il suo corpo, che non è certo il corpo totemico di quei ragazzini fisicati, tartarugati, iperdepilati, lampadati e modificati geneticamente, è il corpo maschio per definizione. Lontano anni luce dal tentativo metrosessuale di ammalarsi di cosmesi, fitness e shopping, il corpo dell’attore Elio Germano è il corpo del teatro cinematografico. Un corpo ed un volto che si prestano alla terrignità dell’obbiettivo autoriale che l’attore ha su se stesso, che come il sottoscritto è piuttosto un puro retrosexual invece che il patologico metrosexual. L’uomo, il maschio, non deve essere “macho”, ma deve essere virile, deve essere semplice, lineare e portare addosso i segni della terra e del tempo. E noi li vediamo scolpiti addosso al nostro Tuco, ad Elio Germano che batte infinitamente a zero qualsiasi altro attore italiano, con buona bace dei senatori, dei parrucconi e dei teen-idol viziati e arroganti con il santino di papi silvio sempre con loro.
E ci voleva uno dei registi più sicuri e lucidi del panora italiano, Daniele Luchetti perché Elio tornasse ad esaltare come nel suo precedente Mio Fratello è Figlio Unico. Il regista sceglie una strada precisa per confezionare questo suo ultimo film. Chi l’ha visto sa che il film sembri non andare da nessuna parte e la sua chiusura anticlimax lo conferma. Allora cos’è La Nostra Vita? É un racconto vero e sincero, nudo e crudo, di uno spaccato sociale italiano operaio che da tempi non vedevamo raccontato in main-stream con la stessa grazia e la stessa potenza linguistica. Infatti, non è tanto la storia del protagonista che deve restare a galla in un mondo di disperati una volta restato vedovo con tre figli a carico, ad essere al centro del racconto. Il centro, l’attenzione ultima è tutta dedicata alla forma. É il lavoro di regia di Luchetti, in concerto con le buone prove degli attori comprimari ad essere il lavoro più importante e la chiave di volta per leggere il film - azzeccato mettere Bova in un ruolo di contorno, invecchiatto, che se è bello è bello per sua natura, non per il trucco o per il tipo di ruolo. È il linguaggio adottato per raccontare questa storia che fa la differenza con altri film e altri registi. In un Bellocchio il personaggio di Germano sarebbe stato molto negativo, e forse anche in Virzì – basti vedere il ruolo che lo stesso Elio (o Tuco) ricopriva in Tutta La Vita Davanti. In Luchetti invece, seppur non ce la sentiamo di amarlo fino in fondo il suo Claudietto, benchè amiamo lui, Elio l’attore, non riusciamo però ad odiarlo e a condannarlo per qualche vigliaccata, per qualche istinto riemerso che la morale comune non vuole digerire. Questo perché la forma del racconto scelta dal regista è impeccabile. Camera a mano, montaggio frenetico e spesso senza soluzioni di continuità, primi piani, primissimi piani, inquadrature rapide e veloci e fuori luogo, fotogrammi che sono emozioni. Come in un montaggio intellettuale Luchetti costruisce l’universo emotivo del protagonista e ce lo restituisce senza mediarlo retoricamente, ma solo formalmente. Il narratore al cinema, presente o assente, c’è sempre, ma è il grado di retorica, di intervento personale che fa la differenza. E qui Luchetti interviene poco e nulla, si limita a dare un’anima alla forma dl racconto e poi lascia che il racconto sia quello che deve essere: una discesa infernale nel mondo del lavoro edile scoperchiando qua e là qualche illegalità di settore accettata da tutti e che fa molto italietta-italiota dove i soldi, la creazione di ricchezza, l’accumulo di ricchezza è il pallino patologico dell’italiano medio, che se ne sbatte di come fa i soldi, basta farli, legali o illegali, e sbatterli in faccia a tutti con belle macchine, belle case, aperitivi, feste di lusso, case al mare, evasione fiscale, chiudendo magnificamente il cerchio con il voto e il consenso verso chi orribilmente “difende il tuo interesse”, un’interesse mafioso e clientelare senza il quale le case non vengono su, senza il quale i tuoi figli non potranno vestirsi da billionaire, senza il quale la tua ragazza non potrà andare in giro tacchi alti e scosciata, gambe lampadate, cicca in bocca, occhiali patacconi a nascondere gli effetti dell’alcol e della droga e che quando ti chiama fa qualche verso tipo “tato!” o “’more!” con quella voce caramellosa che nasconde il vuoto di una vita passata ad appparire, ad essere tra quelli che contano.
L’Italia è un paese classista e sessista. Inutile arrampicarsi sui vetri per negarlo. E Luchetti ha intelligentemente messo alla berlina tutto questo senza trattarlo direttamente. La sua tesi non prende parola, se non in due casi emblematici, per bocca della giovane rumena e della giunonica senegalese, altrimenti non c’è nemmeno l’ombra di un critica, di una denuncia, di un pamphlet. Ma c’è invece la sostanza della forma cinematografica, della forza del racconto sì naturalistico, ma confezionato impressionisticamente, fatto di luci, emozioni e canzoni come quella di Vasco che Elio canta straziante e straziato al funerale della moglie. Non è questo forse un attore? E c’è infine la sostanza degli attori stessi. Il loro corpo. In particolare vediamo che in La Nostra Vita i corpi sono antiestetici. La moglie di Germano, incinta, è sgraziata, ma carina, non bella da capogiro, ma carina, amabile, tenera, un corpo gravido che porta con sé il segreto e il mistero della vita oltre una lìbido tremenda, un corpo-totem intorno al quale il nostro Tuco fa girare tutta la sua vita e tutte le sue certezze che poi si sgretolano e lo portano a delinquere. Poi, il corpo di Bova, uno degli uomini più belli del pianeta si dice in giro, è qui costretto tra tute vergognose che lo comprono goffamente, capelli brizzolati, viso stanco ma sempre bello, e poi la divisa che lo costringe ulteriormente in un lavoro ingrato (quando arriva al cantiere, gli operai fuggono e si nascondono), una specie di scacciafiga, lui, il Bova Nazionale che fa innamorare ancora le adolescenti mestruate dei film di Moccia. Magari potesse mandarlo a quel paese, rinnegare questi suoi ruoli, e continuare sulla linea propostagli da Luchetti. Così anche il corpo di Zingaretti, è un corpo invalido, deforme, ma non per questo non ha grinta e coraggio, spaccia e tira su i soldi per gli amici. Le leggi italiane lo vorrebbero dentro, ma fa molto di più della croce rossa. E il corpo delle due straniere, la rumena rotondetta, sgraziata ma piana di brio, di voglio di vivere e di fare sesso, perché il piacere viene prima dei soldi, ma gli italiani questo non lo capiscono più; e la giunonica africana madre madre e ancora madre, una madre alla potenza con quel suo corpo gigantesco e soprattutto un corpo negro, clandestino, un corpo fuorilegge che trova rifiugio tra i reietti dalla società per bene, quella dei papa-boys e del family-day. E il corpo grosso, grasso, buffo, impacciato di Andrej che cerca il padre morto in cantiere e che invece sta sepolto sotto una colata di cemento così per non chiudere il cantiere. Ragazzotto quasi stupido, che in realtà diventa l’alter ego di Germano e lo mette di fronte alla merda che si stava costruendo intorno. E infine lui, il protagonista, Claudio, Claudietto, Elio Germano o anche Tuco ormai. Un corpo più nervi che muscoli, più pancetta che addominali, più imperfezioni della pelle che pelle lustrata e tirata a nuovo da qualche cremina o da qualche seduta da centro estetico. Il ricordo della sua erezione in Nessuna Qualità Agli Eroi è ancora vivo, e mentre mangia con la moglie davanti al computer con i mobili dell’Ikea, quell’erezione è ancora lì a ricordarci l’istintività del vero maschio che non perde tempo ad ammalarsi di cosmesi, fitness e shopping, ma mangia, beve, lavora e scopa senza fare troppi versi, senza guarnirsi di accessori inutili, senza ostentare il futile – come farebbe benissimo l’Ivano di Carlo Verdone. Un corpo, quello di Tuco, che nella sua evidente distanza dallo standard estetico commerciale è esso stesso il valore aggiunto, un valore autoriale, una consapevole scelta ideologica ed estetica, che fa e farà del film e dei film in cui parteciperà, la sana e dura pietra di paragone con il restante parco attori, quelli imbolsiti, dalle ciglia tagliate, dalle occhiaie tirare, dalla pelle lampadata, dai muscoli alla robocop. Questo corpo vero e genuino di Elio Germano fa il paio con il linguaggio cinematografico di un Luchetti presente e silenzioso, la cui forma permette al racconto di essere tale, senza tesi ad appesantirlo, senza ideologie a direzionarlo, senza dialettiche diplomatiche per salvarlo in extremis. La Nostra Vita racconta una storia italiana recente, e lo fa attraverso i corpi degli attori e attraverso il montaggio emotivo con cui essi vedono la loro vita. Pardon, la nostra.
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