Regia di Mike Leigh vedi scheda film
Il film, diretto con grande cura e con molto equilibrio, trasmette un messaggio di disperato realismo sul senso della vita e sulle chanches che ciascuno possiede per cambiare davvero il proprio destino.
Il film pare mettere in scena, all’inizio, le parole conclusive del Candide di Voltaire: il faut cultiver notre jardin…
A un minuscolo orto della periferia londinese, infatti, dedicano parte del loro tempo libero due anziani coniugi che hanno vissuto una vita di lavoro e di avventure (i viaggi), ma anche di sogni (il ’68; l’isola di Wight).
Le citazioni da Voltaire potrebbero proseguire: il perdurare dell’affetto fra i due coniugi, nonostante il loro imbruttimento (particolarmente quello di lei, una Cunegonda col nome di Gerri (Ruth Sheen); la disillusione dopo la fine dell’utopia ottimistica, che nel film coincide con il progressivo restringersi degli interessi sociali che l’utopia aveva dischiuso, l’accontentarsi (conseguente) di far bene il proprio lavoro e di proteggere la serenità propria e quella della propria famiglia, di cui la coltivazione dell’orto è una bella metafora.
In questa loro tranquilla terza età, Gerri e il marito Tom (Jim Broadbent) si preoccupavano di garantirsi almeno un po’ di serenità, che non è sinonimo di felicità – l’antica aspirazione sconfitta dalla fine del ’68 -
Anche la serenità ha bisogno di difese, come ci dice un’altra scena ricchissima di implicazioni metaforiche: i due si erano rifugiati dalla pioggia, che li aveva colti all’improvviso nell’orto, sotto un fragile gazebo in legno, di quelli che frequentemente si vedono nei back-Yards britannici; il riparo non era del tutto adeguato, ma, per il momento, l’acquazzone li aveva risparmiati…
Come ho scritto, anche l’interesse per la palingenesi sociale era venuto meno, tuttavia Gerri e Tom cercavano di non trascurare gli amici e i parenti che vivevano soli, aprendo le porte della loro abitazione a tre ospiti abituali: Mary (Lesley Manville), Ken (Peter Wight) e Ronnie (David Bradley), tre personaggi che il regista presenta uno per volta, nelle diverse stagioni di quell’anno a cui allude il titolo del film. Non sarebbe stato sufficiente il generoso tentativo di accoglierli distraendoli un po’ per alleviarne la tristezza, poiché la loro solitudine era infinita, cupa e irrimediabile, riflesso dell’ inesorabile fallimento esistenziale di cui dolorosamente tutti nel corso di quell’anno avrebbero preso coscienza.
Il momento della consapevolezza di Ken, che aveva in passato compensato l’infelicità con la bulimia nervosa, il fumo incontrollabile e la birra, era stato determinato dalla brutale ripulsa di Mary, mentre per Ronnie, l’ultimo personaggio a comparire, la coscienza della disillusione coincideva con la morte della moglie e con l’impossibilità di ricuperare un rapporto col figlio che, lontano da lui, lo odiava senza perdono.
L’onnipresente Mary era l’inseparabile amica di Gerri, che faceva la psicologa: accanto a lei lavorava e con lei si confidava; insieme a lei e a Tom passava molto spesso l’intero week-end. L’esistenza trascorsa fra amori infelici e matrimoni naufragati non l’ aveva per ora piegata: nonostante tutto si sentiva ancora bella, giovane, desiderabile, ma la sua incontenibile logorrea, l’amore per l’alcol e l’atteggiamento ridicolo e civettuolo nei confronti di Joe (Oliver Maltman), il giovane figlio della coppia, lasciano presto intuire che la donna è figura tragica, ciò che conferma l’ultima scena del film, quando la camera, soffermandosi su di lei, ne fissa la terribile smorfia di dolore disperato e cosciente.
Da tanta desolazione si salva davvero solo la coppia, coltivando il proprio orticello? Sembrerebbe di sì, ma anche il loro accontentarsi ha nel film il sapore amaro di chi le illusioni se le è tolte rinunciando a una parte importante di sé e dei propri sogni.
Le traversie che attraversano la nostra esistenza, purtroppo, sono elementi costitutivi del vivere, non solo degli errori che si commettono.
Talvolta possono essere così gravi e devastanti, però, da non rendere possibile neppure il desiderio di serenità. E’ il caso della donna, che nella prima scena del film, chiede un sonnifero per dormire, né di altro sembra interessarsi, perché la sua sofferenza ha raggiunto livelli tali di insopportabilità, che l’oblio attraverso il sonno (la morte) le sembra la sola possibile via d’uscita.
Nel film si esprime pertanto una visione tragica del’esistenza, quasi sempre gravata dall’assenza di un po’ di realismo, utile almeno a costruire qualche fragile e provvisoria difesa.
La recitazione degli attori è, a dir poco perfetta e e raggiunge vette altissime soprattutto con la prova di Lesley Manville nella parte di Mary, e di Ruth Sheen in quella di Gerri.
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