Regia di Mike Leigh vedi scheda film
E' già accaduto, non è la prima volta e dunque non me ne preoccuperei se non fosse che stavolta non era previsto. Anche di recente mi era successo, di fronte a film che mi avevano preso particolarmente bene, che io venivo colto da una sorta di blocco che mi impediva di scriverne e di commentarli. Mi riferisco ai due recenti casi dell'ultimo Woody Allen e soprattutto della "Versione di Barney", due opere davanti alle quali ogni parola mi pareva inadeguata e ho dovuto, mio malgrado, rinunciare a commentarle in questa sede. Ma i due casi citati erano di film verso cui mi ero accostato già con predisposizione largamente positiva e dunque l'entusiamo non mi aveva colto di sorpresa. Stavolta è diverso, intanto perchè non sono un esperto frequentatore del cinema di Mike Leigh (del quale ho amato molto solo "Il segreto di Vera Drake") e poi il cast non si preannunciava eccezionale, composto per lo più da nomi che non mi erano noti. E infine il trailer, invitante ma non clamoroso. Insomma, sono entrato in sala senza aspettative particolari. E ne sono uscito perdutamente innamorato di un film di una bellezza immensa. Questo è un film dove a dominare sono le Emozioni. Piccole o grandi, non importa. Ma tante Emozioni. Assistiamo alla rappresentazione di un Teatro delle Emozioni che ci conquista, e sequenza dopo sequenza ci fa dolcemente prigionieri. Il film ha goduto del quasi unanime consenso della critica. E vorrei focalizzare la motivazione prevalente che anima gli sparuti detrattori, che attiene a un dato di fatto comunque indiscutibile. Cioè i (pochi) detrattori affermano che il film è "troppo parlato" e "non succede mai nulla". Che il film sia basato pressochè esclusivamente sulla parola è verissimo. Come pure è vero che non è un film che presenti significativi snodi narrativi. Ma è proprio lì che risiede il suo potere di seduzione. Nel proporre un flusso continuo di dialoghi brillanti, in un dilagare della parola che genera un processo di fascinazione verso questa ansia di parlare e di raccontarsi e di confrontarsi. Il tutto per oltre due ore senza che (almeno per quanto mi riguarda) ne scaturisca nemmeno un sintomo di noia. Il regista è molto bravo nell'introdurre i personaggi al pubblico ed è lampante la qualità alta della sceneggiatura nel delineare psicologie e caratterizzazioni dei ruoli. Ma c'è un dettaglio che mi ha colpito, e non saprei dire se sia una cosa ricorrente nel cinema di Leigh: la straordinaria cura nell'illustrare agli spettatori l'abitazione, l'interno della casa (e anche il suo esterno); il vialetto, l'ingresso, il ripostiglio, il giardino, la cucina, le scale, le camere....ecco io quella casa l'ho "vissuta", mi sembra di averci abitato anch'io per un paio d'ore. Due dunque gli aspetti predominanti: il fascino della parola e la profondissima umanità dei personaggi che vediamo sfilare in questo teatrino dei sentimenti. Fondamentale è poi il rapporto complesso che si viene a creare tra gli ospiti e la coppia protagonista. La coppia. Sono due (si presume sui 60 anni o poco più) maturi signori inglesi, lui geologo e lei psicologa, borghesi e senza problemi economici, che mettono in scena "la coppia perfetta": colti, ironici, spiritosi, saggi, sereni e chi più ne ha più ne metta. Hanno un figlio che ha appena trovato una fidanzata, e tutto fa supporre che la "coppietta" ricalcherà le orme dei due anziani, dato che anche loro sono piuttosto "perfettini". Questa è la famiglia. Attorno a loro ruota un'umanità di gente che, al contrario, non fa che collezionare sfortune. Sono amici di famiglia che i casi della vita hanno ferito, offeso, umiliato. E tutti vengono accolti nella casa di Tom e Gerri (i due, bizzarramente, si chiamano proprio così) con un atteggiamento (attenzione, che qui sta il "cuore" del film!) che non è affatto semplice definire nella sostanza. Apparentemente sembra generosità, questo aprire la casa "a chi soffre". Ma di mano in mano che il film procede, nello spettatore più attento si insinua qualche elemento di sospetto. E questa ambiguità (sottile, per molti difatti impercettibile) che aleggia fra quelle mura e al tavolo di quella cucina, è qualcosa di talmente insinuante da rappresentare forse la qualità principale dell'opera. E da sottolineare che tale ambiguità non viene mai risolta, neppure in quella inquadratura finale che lascia lo spettatore ancor più dubbioso. Un finale aperto che, come ho avuto modo di riscontrare, fa discutere il pubblico all'uscita dalla sala, evidenziando commenti non univoci. Chi dà la lettura semplificata di colui che ha visto un bel film di sentimenti magari un pò malinconico, e chi invece è convinto di avere appena visto un tremendo "teatro della cudeltà". Ciò che affascina è l'ipotesi che questi due pacificati coniugi borghesi còvino dietro la loro bonaria saggezza qualcosa di crudele: vampirizzare le disgrazie degli amici, in pratica sentirsi migliori e superiori a loro proprio cibandosi delle loro miserie e sventure. Questa è la chiave sofisticata di lettura che Leigh porge su un piatto d'argento al cinefilo. Ken e Mary, i due amici sfortunati, vengono raccontati in modo magistrale, con una ricchezza di sfumature e un'attenzione ai dettagli, da suscitare l'entusiasmo (credo di poterlo dire) di ogni appassionato di cinema. Ken è un uomo del tutto alla deriva, ormai dedito solo alle funzioni corporali: mangiare, bere, pisciare. Mary è una donna sui 50 anni, che insiste a vestirsi ed atteggiarsi da ragazza, in realtà sfiorita e depressa, sempre alla ricerca (oltre che della bottiglia) di un appiglio morale cui aggrapparsi. Ecco, questa Mary, peraltro supportata dall'interpretazione di una monumentale Lesley Manville, è un personaggio stupendo. E allora occupiamoci di questo formidabile cast. Jim Broadbent e Ruth Sheen, i coniugi, offrono due prove magistrali improntate alla naturalezza. Peter Wight interpreta in modo eccellente Ken, quest'uomo obeso e disperato che vive ormai solo di ricordi. Lesley Manville offre una sontuosa prova, assolutamente da Oscar, nei panni della povera Mary. Da segnalare infine, nei primi 10 minuti, quasi una specie di cameo, un formidabile incipit in cui assistiamo ad una impressionante performance della divina Imelda Staunton. Da non perdere, questo capolavoro su Famiglia e Solitudine. Con un interrogativo finale, su cui vorrei confrontarmi con coloro che hanno visto il film. Secondo voi, Mary come esce da questa vicenda? Più consapevole? Ancor più umiliata e depressa? Rifarà gli stessi errori di sempre o ha maturato un cambiamento?
Voto:10
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