Regia di Mike Leigh vedi scheda film
"Un altro anno": un'espressione comune e semplice che in poche parole dà il senso dello scorrere del tempo, la ciclicità degli avvenimenti che sovrasta eventuali episodi singolari e memorabili. Non a caso e in modo del tutto naturale, ma non per questo scontato, M. Leigh struttura in quattro parti Another Year per mezzo delle stagioni, un concetto simbolico, vecchio come il mondo, "abusato" da tutte le arti. Un riferimento però universale, fondante e fondamentale della vita e dei suoi sviluppi esteriori e interiori, del rapporto dell'uomo con la natura, con sé stesso e gli altri. Una scansione quindi che evidenzia il soggetto del film, proprio i rapporti interpersonali e le psicologie delle persone, con i loro desideri, le loro delusioni e disillusioni, le loro amicizie o invidie e gelosie, il bisogno che ognuno ha dell'altro, i sorrisi e gli occhi smarriti, le sicurezze e le nevrosi.
Leigh è maestro nel lasciar pervadere lo sguardo dal tempo quotidiano, un tempo naturale filtrato di volta in volta dalle sensibilità dei suoi personaggi-attori-esseri umani, nel quale il mezzo cinema non ha bisogno di intromettere scossoni esterni, ma simula e camuffa il proprio punto di vista precisamente costruito, perché capace di capire ciò che vede e guarda non pontificando dall'alto e lasciando insieme la possibilità e il tempo di riflettere allo spettatore.
La circolarità appare tale dal rinnovarsi di eventi percepibili ma anche da artifici utilitari e convenzionali creati dall'uomo (il calendario ecc.), tuttavia il film gode anche di un lineare crescendo emotivo e di tensione sottocutanea, dall'apparente tranquillità primaverile, dove i turbamenti e i problemi sembrano momentanee nubi oscure, fino al grigiore dominante dell'inverno e del clima letteralmente luttuoso, che lascia intravedere sempre più le debolezze di tutti, non solo della nevrotica ma in fondo buona Mary (una L. Manville di bravura e verosimiglianza impressionanti), ma anche della coppia dall'ironico binomio Tom e Gerry (J. Broadbent e R. Sheen, anche loro davvero in gamba come tutto il cast), che lasciano intravedere un latente senso di pietismo al limite dell'orgoglio, magari pure in buona fede. Con questo però per ribadire il fatto che anche loro, come tutti, hanno bisogno di qualcun'altro con cui confrontarsi, come appare ulteriormente dal rapporto toccante tra Mary e Ronnie (D. Bradley). Eppure la sorpresa non è assente: tutto comincia con il primo piano sulla paziente Janet (Imelda Staunton, magnifica con pochi dettagli), così dapprima si crede quasi che sia lei la protagonista, poi sembrano per quasi tutto il film Gerry e Tom, infine si ha la conferma che in realtà sia Mary il centro della storia, grazie ad un primo piano che la isola dalla conversazione a tavola, ricollegandola proprio con Janet e con il personaggio materno di Belle speranze: là i pensieri e l'isolamento avvenivano con l'entrare in campo della musica, qua dallo svanire delle voci fuori campo e poi nel buio, con lo sguardo assente di Mary, e nella musica dei titoli di coda, quella delicata di Gary Yershon, che scandisce i raccordi e interviene dopo i momenti di maggior tensione, stemperandoli e ribadendo il fluire del tempo con melliflue melodie di oboe, archi e chitarra.
Ancora segreti e bugie che si intravedono. 8 1/2
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