Regia di Im Sang-soo vedi scheda film
ll tratteggio dei personaggi ha qualcosa di forzato, come di irrisolto, il plot non brilla per originalità, ma la presenza di Go-Yeon Jeon è capace di riabilitare i difetti e condurre lo spettatore allo splendido finale con felice equilibrio.
Il confronto con l’originale Hanyo del ‘60, di cui é un remake o, più esattamente, una reinterpretazione, come afferma il regista, può essere interessante per constatare le differenze, cinquant’anni segnano una distanza siderale se si parla di argomenti come rapporti di classe, ruolo sociale della donna, conflitti interni alla famiglia e, in definitiva, di tutto quello che in mezzo secolo può vivere rivoluzioni a dir poco copernicane.
Sarebbe interessante scoprire, però, che poco è cambiato, che al di là di una sottile patina esteriore che spesso edulcora con i lustrini del modernismo il permanere di tare ataviche e certe dinamiche sono rimaste le stesse.
Questa storia di sesso ancillare, prevaricazione, violenza morale e stupro psicologico, amplificata dal retrogusto indotto dalla sequenza iniziale, che introduce il tema sociale dell’anonimato e dell’alienazione di massa (il suicido di una ragazza che si butta giù dal cornicione di un palazzo dei divertimenti, mentre intorno impazza la movida coreana) é in fondo la storia di sempre in un mondo in cui i ricchi comandano, suonano divinamente Beethoven al pianoforte nel lussuoso living room di casa, pasteggiano con calici di finissimo cristallo e bottiglie d’annata, mentre i poveri portano colazioni a letto, lavano a mano la biancheria sporca della signora che sforna gemelli come se piovesse, infine accolgono nel proprio letto il padrone che ha questa moglie troppo incinta, nonostante sia bellissima e disposta a far sesso anche con un pancione di otto mesi e mezzo.
Di storie del genere sono pieni gli annali, da oriente a occidente il mondo é sempre stato popolato dai figli della serva, e allora ci si chiede cosa tenga desta l’attenzione a questo film, insinuando un disagio sottile e crescente, quasi insopportabile a momenti, perché il crescendo di tensione é esponenziale, sappiamo fin dall’inizio che non mancherà la catastrofe.
Che puntualmente arriva con un colpo di scena tanto atteso quanto magistrale nella sua capacità di scioccare, di far ribaltare sulla poltrona chi non è abituato a certi stilemi del cinema orientale, in particolare coreano.
E’ Eun-Yi il deus ex machina, la protagonista, una Do-Yeon Jeon di notevoli capacità attoriali, già ammirata in Secret sunshine.
Donna minuta, non bella, solo graziosa, domina la scena ininterrottamente, con discrezione, poche parole, ma nei suoi occhi a mandorla riesce a passare il dolore del mondo.
Peccato che qua e là il regista si perda in qualche cliché un po’ troppo scontato come l’ anziana governante di casa, servile e anaffettiva ma con pentimento e lacrime finali. Figura che finisce nel macchiettismo come la bella e perfida suocera, prestata dal set di Beautiful, che ha investito tutto nel matrimonione della figlia pupattola e non esita di fronte a niente, neanche all'idea di eliminare Eun-Yi che aspetta un figlio dal genero. Con soldi o mezzi più sbrigativi non ha importanza.
Il giovin signore, da parte sua, in bilico tra ottuso cinismo di classe (“ha sempre avuto tutto dalla vita!” dice la governante alla giovane cameriera Eun-Yi) e residui baluginanti di coscienza (forse indotti dalle sue indubbie qualità di interprete musicale) è il meno convincente di tutti, la sua vigorìa sessuale resta più esibita che autentica, di lui non resta traccia nel pensiero post/visione.
In definitiva, il tratteggio dei personaggi ha qualcosa di forzato, come di irrisolto, il plot non brilla per originalità, ma la presenza di Go-Yeon Jeon è capace di riabilitare i difetti e condurre lo spettatore allo splendido finale con felice equilibrio.
Eun-Yi ci fa seguire una sua storia interiore che scorre parallela al mondo in cui vive e a quello che le capita, é raffinata e sottile, non urla il suo dolore ma lo avvertiamo così profondo da ucciderla.
Stupirsi e gridare all’esagerazione per quell’ultima scena é aver perduto il contatto, nel corso del film, con quest’ altra storia, ed é anche comprensibile, non é facile leggerla sotto i gesti stereotipati imposti dal ruolo, i rigidi protocolli di un’etichetta che riproduce, nel microcosmo familiare, le stesse tare sociali aberranti che condannano alla solitudine anche dopo la caduta nel vuoto, giù da un cornicione, quando di una vita restano solo una traccia di sangue e il profilo segnato col gesso sul selciato.
Da segnalare la piccola Mani, figlioletta primogenita della coppia, una di quelle presenze stupefacenti e inaspettate, a volte, in un film, per quello che dice, per come lo dice, per il suo caschetto di capelli nerissimi e la compunta serietà dei suoi gesti, in brevi camei ruba la scena perfino a Eun-Yi.
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