Regia di Xavier Beauvois vedi scheda film
In tempi in cui le vicende umane decretano la morte non solo di dio, c’è ancora spazio per un film sugli uomini che gli appartengono. Del dio cristiano, naturalmente, si tratta, di quel dio per il quale, nonostante tutto, ci si batte perché valga ancora quel “non avrai altro…”. E questo film lo dimostra, mostrandoci le testimonianze lasciate dagli otto monaci cistercensi francesi a Tiberine, regione montuosa dell’Algeria, che ricostruiscono i loro ultimi mesi di vita, in quella terra dilaniata negli anni ’90, quando già la convivenza tra loro e la popolazione locale era compromessa dall’inasprimento del conflitto tra il governo e gli islamisti.
Beauvois, attore, sceneggiatore e regista quarantatrenne, qui si concentra, in particolar modo, sul racconto della quotidianità, sugli ora et labora dei monaci. Mostra una metafisica della quotidianità ch’è percepibile negli sguardi, nei sospiri e nelle sofferenze di un’umanità ch’è tale all’interno e all’esterno del monastero. Il dubbio, la resistenza, la sofferenza, ma soprattutto, il pudore accomunano tutto e tutti. Con molta discrezione ed onestà intellettuale il regista francese lascia che ciò ch’è ancora nebuloso (non si sa ancora con esattezza lo svolgimento dei fatti, e la corresponsabilità dell’esercito algerino nel massacro è solo presunta), resti nell’immaginazione di chi è sempre alla ricerca. Infatti, gli uomini di Beauvois sono piuttosto consapevoli che “la scommessa”, così come la definiva Pascal, non colmerà mai il vuoto, l’assenza e il silenzio. Perciò la sacralità di alcune immagini funge da raccordo con talune iconografie che del sacro hanno l’identificazione con il Cristo del Mantegna, con la luce del Caravaggio e l’elegia de Il lago dei cigni di Tchaikovski (che qui risulta troppo funzionale al flusso delle lacrime). Il momento più alto, poi, lo si guarda nello stringersi delle immagini sui primissimi piani, in cui gli uomini, più che di dio, sembrano fortemente scarnificati nella loro sofferenza di fronte alla morte. Qui il silenzio si fa assordante e dio lo si può percepire come in quell’urlo di Munch, privato di suoni che, altrimenti sarebbero lancinanti. Importante il lavoro del direttore della fotografia (Caroline Champetier), da vero e proprio pittore, tratteggia le atmosfere plumbee e opprimenti che, di sequenza in sequenza, svuotano gli ambienti e gli stessi uomini, privandoli finanche del dubbio, lasciandoli in preda del solo timore e della fragilità, intesa come “non una virtù in sé, ma l’espressione di una realtà fondamentale del nostro essere”. Tant’è che, a differenza di quanto si è soliti pensare, nel monastero di Beauvois la musica degli inni non è celestiale, anzi ha la gravità dell’oscurità che incombente, non c’è pace o qualsiasi forma di manifestazione ad essa affine, perché il dubbio corrode qualsiasi certezza di fede. Non si può fare a meno di ripensare ad altri titoli di film molto simili, dal Grande silenzio di Groning, ma anche al Rossellini di Paisà e al Francesco della Cavani. Intanto, l’unica verità è che, in nome di quell’oppio dei popoli, oggi ce n’è ancora tanti di ’drogati’, di ogni forma e appartenenza religiosa, celebrano l’esaltazione di un dio che noi lo sentiamo più vicino a quello di Francesco Guccini.
Giancarlo Visitilli
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