Regia di Takeshi Kitano vedi scheda film
Il “presidente supremo” della yakuza (Soichiro Kitamura) non vede di buon occhio l’allenza tra la famiglia di Ikemoto (Jun Kunimura) e quella di Murase (Renji Ishibashi). Convoca in disparte Ikemoto e attraverso Kato (Tomokazu Miura), il suo fidato braccio destro, gli fa sapere che l’allenza di sangue tra due fratelli è buona cosa, ma il padre deve sempre essere rispettato di più. Un modo sottile per indicare la strada da prendere. Il braccio armato della famiglia di Ikemoto è retto da Otomo (Takeshi Kitano), uno yakuza abile con le armi e affidabile come risolutore del “lavoro sporco”. La contesa tra le due famiglie “alleate” per la conquista di un vasto territorio per il mercato della droga inizia con piccole scaramucce e prosegue con un escalation di violenza che finisce per non risparmiare nessuno.
Dopo tre film in cui Beat Takeshi, tra toni autocelebrativi e accenni autoironici, ha inteso fare una ricognizione sulle condizioni di salute della sua vita d’artista e della sua creatività, ritorna con “Outrage” a parlare della yakuza. E’ un tema questo che ricorre spesso nella filmografia dell’autore giapponese che, attraverso la scarnificazione dell’oggetto criminale e una marcata accentuazione del lato grottesco delle vicende malavitose, ha dimostrato di non essere tanto attratto dall’action movie per finalità meramente spettacolari, quanto di voler usare i tipi della yakuza semplicemente perché quell’organizzazione criminale è parte integrante della vita sociale del Giappone e parlarne è un modo come un altro per confrontarsi con i suoi sviluppi antropologici. Se si guarda alla devozione incondizionata di cui vengono fatti oggetto i capi della yakuza da parte dei rispettivi sottoposti e allo stemma di famiglia che impunemente viene ostentato nella sedi delle singole organizzazioni, si noterà qualche assonanza di carattere e di struttura tra le odierne famiglie della yakuza e le antiche caste feudali che facevano capo al daimyo. Il potere assoluto del gran capo, l’onore di casta, la rigida struttura gerarchica dell’organizzazione, la devota obbedienza ai capi, sono tutti aspetti che hanno un retaggio culturale antico e, come già hanno sottilmente dimostrato alcuni grandi maestri del cinema giapponese come Akira Kurosawa e Kenji Mizoguchi, come tali mantengono la capacità di rimanere presenti nel tessuto sociale di una nazione e permearne il carattere ben oltre il tempo storico che li ha visti nascere e crescere. Del resto, è risaputo che le fortune economiche del Giappone debbono molto allo spirito di corpo di una popolazione assai predisposta a investire nella gloria del proprio paese una parte considerevole della propria vita, uno spirito che è proprio il frutto della commistione e della sedimentazione nel tempo degli aspetti indicati. Aspetti che ritroviamo anche in un elemento decisamente antisociale come la yakuza che, ripeto, per la struttura gerarchica che la sorregge, le dinamiche interne che servono a garantirgli la cieca fedeltà degli affiliati e il modo in cui proietta se stessa verso l'esterno, ricalca molto gli stilemi tipici delle vecchie dinastie feudali. Ma quello era un mondo chiuso, e se nell’antichità si riteneva che i vertici della piramide avessero una natura divina e quindi si accettava la propria posizione sociale come quella attribuitagli da un destino infallibile, oggi, essendo il potere e i soldi a qualificare ogni cosa in un mondo aperto al più bieco materialismo, la devozione cieca allo spirito di casta e al rispetto della gerarchia lascia uno spiraglio aperto agli infausti presagi dell’inganno. Con “Outrage” Takeshi Kitano lo tiene appunto aperto quello spiraglio, per mostrarci le strategie di vendetta e i bagni di sangue che si susseguono, seguendo le coordinate della più normale lotta per la supremazia territoriale e secondo un rituale che riprende il più classico “divide et impera” tra le strategia di comando in uso presso il vertice della piramide. In precedenza Kitano aveva sempre mitigatola natura criminale della yakuza epurandone gli effetti esclusivamente sanguinolenti, o usando l’immensità del mare per ammantare di dolce lirismo l’attesa della fine di un clan mafioso (“Sonatine”), o facendo degli uomini della yakuza lo sfondo simil grottesco della sofferta esperienza di un poliziotto ferito (“Hana-bi”), oppure ricavando dall’affetto filiale e dal senso profondo di amicizia la furia omicida di uno yakuza in trasferta (“Brother”). Con “Outrage”, invece”, Kitano ci mostra la faccia violenta della yakuza riflettendone per intero l’odore di morte che gli appartiene, con tutta la freddezza cinica che si accompagna alle regole non scritte di un associazione di uomini “d’onore” e senza lasciare spazio alcuno al possibile instaurarsi di qualsiasi pulsione sentimentale. Tutto avviene e tutto si esaurisce all’interno di una calcolata strategia per la supremazia e la sopravvivenza. Una geometria del crimine che è insieme un analisi cruda della struttura criminale della yakuza e un modo per riflettere sulla natura cancrenosa dell’impagabile sete di potere.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta