Regia di Apichatpong Weerasethakul vedi scheda film
Amato dal Presidente di giuria di Cannes 2010 Tim Burton, che lo premiò con l’ambita Palma d’oro, fu un’autentica scelta a sorpresa, ma oggi si può dire che lo fu solo fino ad un certo punto se si considera l’effettiva entità dell’opera rapportata al gusto del famoso regista americano.
Infatti, se lo stile è completamente disgiunto, è comunque affollato di temi che proprio a Tim Burton sono molto cari.
Afflitto da una grave malattia ai reni, Boonmee si è trasferito in campagna attorniato dai parenti rimasti in vita, ma proprio durante una cena con loro si palesano il fantasma della sua defunta moglie e sotto le spoglie di un uomo scimmia suo figlio che tempo addietro era stato dato per disperso.
Mentre il momento del trapasso si avvicina, si reca presso una grotta per compiere il viaggio più lungo.
Cinema che viene da lontano, nella fattispecie dalla Thailandia (per cui le riflessioni proposte meriterebbero approfondimenti che vanno ben al di là della pellicola in se), Apichatpong Weerasethakul intimidisce anche i cinefili più navigati, ma almeno in questo caso quella che pone è una sfida che vale la pena di essere affrontata, certo protratta con un passo lento (comunque non estenuante), ma ricca di regali e capace di comunicare, certo non sempre nel modo più diretto (come a noi occidentali in fondo di solito piace anche fosse solo per abitudine).
Costruisce una dimensione fantastica, ma anche reale, danzando tra la vita e la morte così come tra il passato ed il presente (senza dimenticarsi del futuro), l’autore riesce a far convivere, o meglio colloquiare, fattori, spazi e tempi sideralmente lontani in una costruzione che si prende i suoi tempi senza scendere a compromessi, ma arrivando anche ad essere puramente immaginifica.
Questo riuscendo a catturare l’attimo in un’immagine, tra spiriti, creature, presenze e sempieterne tradizioni, con inserzioni mistiche e primordiali.
Un discorso che quindi abbraccia tanti spunti contraendo un riquadro che da un’impronta personale in apparenza ristretta si allarga poi a dismisura, senza inflessioni gratuite verso il comune sguardo, ma comunque intellegibile qualora pure avventuroso, almeno come possibile percezione, nel suo girovagare anche di palo in frasca (lo spezzon col pesce gatto).
Chiaro che, come accade ai personaggi alla prima apparizione di un fantasma, e subito dopo di un uomo-scimmia, lo spettatore è chiamato a guardare quest’opera, dove l’impossibile diventa compagno reale, con i medesimi occhi, per sentirsi più prossimi ad un inno alla libertà più volte manifesto (racchiuso, tra gli altri, dal comportamento del monaco nell’ultima fase).
Raro e prezioso, anche se per capirlo a fondo ci vorrebbe un vero studio dettagliato (il che è in generale un limite per quanto portatore di fascino).
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