Regia di Apichatpong Weerasethakul vedi scheda film
Cinema fantasmatico, talora sconcertante, dalla dinamica impervia quello di Apichatpong Weerasethakul. Eppure, a suo modo, trasparente, onesto, puro. Vale sempre l'idea che, quando ci si imbatte in cinematografie così distanti da noi geograficamente, occorrerebbe conoscere a fondo la cultura del luogo per capire tutti i risvolti semantici dell'opera. Certamente, il buddhismo costituisce il presupposto teorico fondamentale per questo film, ma non si creda per questo che "Zio Boonmee" sia un film sulla reincarnazione. C'è molto altro e molto di più. C'è una concezione del Tempo completamente stravolta, all'insenga di un'identità di passato, presente e futuro; una visione panteista della vita, fondata sull'accettazione di un Dio espanso ovunque, nella natura, nelle persone, nei pensieri, nelle immagini. E l'immagine, fotografica e cinematografica, è proprio uno dei temi latenti che arricchiscono questa sfuggente opera. Un paio di sequenze suggeriscono questa dimensione riflessiva nei confronti del mezzo-cinema (più in generale dell'immagine). Uno dei personaggi è ossessionato dalla ricerca di uno strano animale, una scimmia volante, vista in una fotografia e ritrovata, di sfuggita, nella "realtà". Al vecchio e malato zio Boonmee appare in sogno un futuro in cui le "autorità" gettano un fascio di luce contro le persone e, in tal modo, queste proiettano sullo sfondo la storia della loro vita; mentre racconta il sogno, una serie di buffe fotografie di soldati scorrono una dopo l'altra. Si tratta di una delle sequenze più dense, più teoriche, più enigmatiche e più affascinanti dell'intero film. Un corto circuito di speculazioni estetiche e politiche, aperto a svariate interpretazioni, dove il passato (e il futuro?) bellico e tirannico dellaThailandia si incrociano ad una trattazione sull'immagine filmica di spessore e suggestione degni di Antonioni. Siamo fra la criptica metafora e la struggente poesia, senza dimenticare una smaliziata ironia, con la quale AW si prende gioco non certo degli spettatori, ma piuttosto di tutto ciò che di serioso e volgarmente misticheggiante potrebbe suggerire il suo immaginario. Infatti, colpisce di "Zio Boonmee" la calma, la leggerezza, la naturalezza con cui i personaggi accettano, dopo un iniziale stupore, la comparsa di fantasmi ed altre creature improbabili. E' un inno pacato alla sospensione dell'incredulità, al cinema come territorio franco in cui tutto più accadere, alla sovversione di ogni principio materialista. Per questo motivo, "Zio Boonmee" è anche un film contro i dogmi, contro le catene che inibiscono le libertà; è un film anti-religioso (il monaco che si libera dei propri abiti) e anti-istituzionale (la principessa che si libera dei gioielli). E anche anti-narrativo, ovviamente. Ci sono pagine che risplendono per la loro innata bellezza, momenti di cinema puro che vivono di luce propria. Tra questi, l'episodio della principessa (sogno-proiezione-fantasticheria di uno dei personaggi, la matura donna divorziata) che, per piacere nuovamente al giovane servo da cui è attratta, concede tutti i suoi averi ad un pescegatto parlante è una splendida, incantatoria, evocativa fiaba che si fa, al contempo, meditazione sul passare del tempo, apoteosi pan-sessuale e metafora dell'illusione cinematografica: lei si specchia nel fiume e si vede giovane, e per recuperare il Tempo perduto farà l'amore col pesce. L'idea dell'uomo tutt'uno con la natura e con qualsiasi altra cosa esistente o ricordata o immaginata viene resa da AW con dettagliati piani fissi in cui gli umani paiono quasi inghiottiti dall'ambiente circostante, come insetti che si muovono scardinando una sorta di tableau vivant. Se però AW pare prendere le mosse dall'austerità rigorosa di un Tsai Ming-Liang, ben presto si rimette in discussione, capovolgendo di punto in bianco la propria estetica. Come nella sequenza dell'esplorazione della caverna, trascinante e ipnotica traslazione dai piani fissi "mimetici" ad una soggettiva immersiva. In questo trasognato, contaminato, onnisciente, onnipresente cinema, dove la Morte non esiste, si giunge ad un memorabile finale, in cui si paventa l'idea di un cinema come territorio delle vite possibili, delle realtà parallele, del tutto-tutto: un monaco abbandona il proprio ruolo, la mdp lo riprende mentre si fa una doccia, l'inquadratura lo sdoppia, il montaggio lo porta a cena con una donna mentre una brano di thai-rock fa da collante a tutte le ipotizzabili idee/immagini di vita. Quella che pare una chiusa incomprensibile di un film già di suo complesso è in realtà una trasparente, sentimentale, ottimista dichiarazione, quasi programmatica, del potere inventivo di cui forse solo il cinema, coi suoi numerosi e variegati espedienti, dispone fra tutte le arti.
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