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Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

Regia di Apichatpong Weerasethakul vedi scheda film

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La recensione su Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

di (spopola) 1726792
8 stelle

Un film sorprendente ed enigmatico, allegorico e misterioso che ben evidenzia il particolare rapporto che l’autore ha con la natura e si traduce nell'esplorazione di un magmatico territorio seducente e onirico abitato da simbologiche presenze quasi magiche, non tutte completamente decifrabili qui da noi in occidente, ma di forte impatto emozionale.

Il film è  il risultato di un progetto più ampio, concepito inizialmente  come installazione. Se non avesse vinto la Palma d’Oro a Cannes sarebbe rimasto, come gli altri fantastici lavori di Joe (così il regista ama farsi chiamare), invisibile al pubblico italiano. (Massimo Causo, I duellanti n. 63).

Onore dunque alla coraggiosa scelta di quella giuria che ha dato visibilità col premio (anche se poi all’atto pratico sono stati pochissimi quelli che hanno “osato” entrare in sala, e ancora meno quelli che hanno apprezzato il risultato) a un’opera difficilissima, ma preziosa e straordinaria come questa e che altrimenti avrebbe  “colpevolmente” subito la sorte di tutte le altre pellicole di Apichatpong Weerasethakul, a partire proprio da Tropical Malady  che qualche anno fa lo impose con prepotenza all’attenzione internazionale per la sconvolgente arditezza della forma, ma nonostante l’eco mediatica suscitata dalla sua presentazione ancora a Cannes (anno 2004), il premio speciale della Giuria vinto e l’inusuale particolarità del soggetto, circolò poco e male, anche se è comunque scaricabile dal web e si può persino guardare – sottotitolato – in streaming (in teoria la storia di un amore omosessuale che lega  un giovane soldato, Keng,  al contadino Tong, ma nella pratica del risultato, un misterioso, affascinante sconosciuto “oggetto”  pieno di ermetismi, visivamente magnetico ma di difficile lettura, che nella seconda parte si trasforma in una indecifrabile quanto suggestiva avventura nella giungla tropicale, dove anche il mito può diventare realtà, e le leggende prendere vita).

Lo zio Boonmee, come le precedenti opere del regista, del resto, è un film altrettanto sorprendente ed enigmatico, allegorico e “imperscrutabile”, che rende ancor più evidente l’indissolubile rapporto che l’autore ha con la natura, un elemento questo singolare e prioritario,  che nel suo cinema si trasforma nell’esplorazione di uno speciale, magmatico territorio seducente e onirico attraversato da forti cariche  di emotività e di spiritualità che hanno origini lontane e si esprimono attraverso simbologiche presenze quasi magiche, non tutte completamente decifrabili qui da noi in occidente, ma di forte impatto emozionale.

Non è molto facile etichettare il cinema di Weerasethakul, e ancor più problematico racchiuderlo in una semplice definizione.

Ci sono opere che vanno infatti ben oltre lo sterile sperimentalismo, che fanno parte di un progetto più organico e complesso (si potrebbe dire che perseguono un’idea ben radicata e certa), e scelgono per questo di affrontare temerariamente dei terreni vergini mai visitati prima, di arrampicarsi su perigliosi pendii incuranti del pericolo, rischiando persino – se non comprese fino in fondo da chi distrattamente non si lascia attrarre da tanta avvolgente bellezza - di “annegare” la propria innovatività anche stilistica, nell’incomprensione totale che sfocia nel rifiuto, o peggio ancora nella noia che degenera verso la sonnolenza e lo sbadiglio,  e persino nell’insofferenza del ridicolo:  Lo zio Boonmee (come del resto tutto ciò che Weerasethakul ha realizzato fino ad ora) è appunto una di queste, rappresenta un “rara”, insolita esperienza che per alcuni  può essere esaltante, ma risultare per altri assolutamente deludente, troppo ermetica e oscura come appare in superficie. Normalmente vengono definiti film di “avanguardia” un po’ empirici, o anche “azzardi visionari” ma sono classificazioni che non rendono del tutto giustizia al senso ed all’impegno, totalmente inadeguate  a rappresentarli davvero, perché a ben guardare, non sono in effetti opere che si pongono “semplicemente” il prioritario obiettivo di testare inusuali ardite tecniche di impaginazione visiva e di racconto. I loro obiettivi sono più ambiziosi e articolati, così come i risultati  conseguiti sul campo, che sono semmai  il frutto di atipiche esperienze e di altrettanto singolari intuizioni portate avanti con tenacia elaborando progetti compositi e di più ampio respiro, che spingono il cinema a confrontarsi con altri ambiti, con altre metodologie, come la multimedialità o la videoarte, e  persino con altri magisteri dottrinali come  la politica e la storia (potrei definirlo allora un cinema interdisciplinare, ma sarebbe ancora una classificazione troppo rigida e stretta ed altrettanto “imprecisa”).

Il primissimo stimolo a girare questo film – sono parole dello stesso regista -  l’ho avuto al momento in cui ho letto il libro che l’ha poi ispirato (era l’epoca in cui stavo viaggiando attraverso il Nord del paese alla ricerca di posti dove girare). Quello che mi ha attratto, è il fatto che il protagonista, al contrario di quanto succede in altri paesi che rievocano molteplici reincarnazioni, continuava a rinascere negli stessi luoghi, Nord della Thailandia. La connessione tra film e progetto artistico per me si è sviluppata soprattutto a partire da questo succedersi di osmosi anche territoriale dell’anima che si reincarna. Di conseguenza, la concezione della pellicola è parte di un continuo dialogo tra elementi diversi che ho cercato di rendere più interessante in quanto processo in continua trasformazione. Ero poi anche intrigato dal lavorare sull’idea di reincarnazione nell’arte, intesa nel senso molto classico di “copia”,  perché rifare un film o citarne alcune parti (io l’ho fatto spesso nelle mie opere) rappresenta proprio questo per me: una “speciale” particolare, insolita reincarnazione della creazione artistica che si rinnova e si perpetua. (…) Il volume a cui mi riferisco, è in verità un libello che veniva distribuito presso un tempio buddista della Thailandia settentrionale  come testo d’ispirazione religiosa. Lo stile della narrazione del libro è molto tradizionale: è scritto in terza persona e si basa sulla ripetizione linguistica e di situazioni. (…) Ma dell’intreccio del libro non è rimasto poi molto nel film, devo dire, se non l’episodio della reincarnazione in un bufalo. (…) Ha però fornito l’idea di un tragitto di reiterate  reincarnazioni (e l’immagine del personaggio centrale, lo zio Boonmee, diventa così una “summa” complessiva nella quale sono confluiti  diversi spunti d’ispirazione). Nel suo ritratto, sono infatti presenti elementi legati ai miei ricordi su mio padre, e a quelli della mia attrice Jenjira Pongpas, alla quale sono molto vicino, ma con tracce che attingono da elementi derivati da alcuni episodi drammatici non recentissimi, ma tutt’altro che dimenticati).

In ogni caso, Lo zio Boonmee è uno struggente racconto (e un percorso) di riconciliazione con il passato e le anime dei morti che ci hanno preceduto, esteticamente affascinante a partire dalla forma, ma è  anche una meditazione  su un paese silente come la Thailandia (la sua storia e i suoi costumi)  che trasforma l’antropologia in  creazione artistica. E’ soprattutto  una personalissima rivisitazione di vicende familiari fatta incrociando la tradizione orale dei racconti con la mitologia arcaica delle leggende di quella terra, ma intrecciando il tutto con i sentimenti e i desideri ancestrali di serenità che nascono  dalla trasmissione diretta di memorie tramandate che hanno radici profonde nell’immaginario collettivo che rievoca e ricorda antichi episodi di “abusi di potere” . Il film in fondo è allora un racconto “semplice”, si potrebbe dire, ma così denso di rimandi ad altre storie e ad altre vite, che si trasforma di conseguenza in una vicenda tutt’altro che lineare,  traboccante di elementi raccolti in un  complesso “viaggio esperienziale” che  ricompone e amalgama una concatenazione di eventi, per farli diventare il luogo di approdo del cammino (ma anche  quello di una  ripartenza, come ci insegnano tutte le teorie sulla  reincarnazione).

E’ ancora la foresta tropicale il luogo nodale degli avvenimenti, un posto così intricato dove è facile perdere l’orientamento, si possono incontrare bestie feroci o entrare in contatto con i fantasmi del passato,  contrarre malattie o cedere alla suggestione delle allucinazioni, fatto di luci abbaglianti e memorie da custodire, di passioni urticanti e territori inesplorati fra pesci e principesche presenze, oltre che di destini umani e “sovrumani” che si “compiono”. La foresta dunque come spazio privilegiato per incontri e folgorazioni, nel quale il regista sublima e trasfigura identità, persone, animali e cose, contaminando linguaggi e linearità narrativa, utilizzando soprattutto la forza rigeneratrice dell’imprevisto e quella più sottile e sfuggente del disorientamento, concentrandosi però più che sull’osservazione, sull’alterazione sistematica dei ricordi che si “ricompongono” in forme sempre nuove. In modo ancor più elementare (o per tentare di semplificare un poco  l’ermetica complessità  di ciò che Weerasethakul  intende esprimere,  si può dire che il film (e la foresta che ci sta dentro) diventa l’ideale punto di incontro tra uno stimolo teorico (la lettura di un libro che parla di reincarnazione e di memoria, per l’appunto) e la conoscenza di un luogo geografico ben determinato anche dentro quella giungla, oltre che dei fatti che lì si sono consumati (il villaggio di Nabua, situato in una zona di frontiera a Nord-Est del Paese spesso attraversata da feroci  violenze perpetrate dall’esercito nei confronti dei civili, come la repressione violentissima che in anni ormai lontani soffocò in quel luogo una spontanea rivolta degli agricoltori contro il governo totalitario e costrinse gli uomini  superstiti a  fuggire nella foresta, lasciando nel paese solo le donne con i loro figli).

Sarebbe però a mio avviso un gravissimo errore se volessimo per questo relegare un autore complesso come Weerasethakul  nel paludoso territorio delle  rivisitazioni intrise di un pericolosissimo “esotismo di ritorno” fra realtà e leggende,  perché la sua foresta è qualcosa di più e di meglio, ed è proprio con essa che il regista gioca magnificamente il suo ruolo utilizzando al meglio gli  apparati tecnici e il materiale visivo realizzato che sparpaglia e ingarbuglia a piacimento rifiutando ogni accademismo consolidato (anche in una concatenazione non sempre del tutto “logica” degli eventi), confonde i riferimenti culturali, ristruttura gli spazi e fa quasi collassare il tempo creando grovigli e  trame, con un lavoro organico  attraverso il quale, a forza di raccogliere per strada frammenti e tasselli di storie ed emozioni del passato appartenuti ad altre storie e vite, costruisce lì il suo personale spazio mentale, pronto ad essere rivisitato in futuro da altre diverse e rinnovate reincarnazioni. (Carlo Chatrian).

L’uomo che ricorda, è nella pellicola proprio lo zio Boonmee, una sorta di medium malato che vive immerso fra i fantasmi (un’altra pellicola che nella  stagione appena terminata tratta quindi con una differente ottica, perchè diversa è la “radice”, il tema del rapporto con l’al di là e della “rigenerazione” dei corpi e delle anime che  si alimenta qui con le filosofie e le credenze delle religioni orientali) e dentro ad un villaggio circondato dalla foresta, dove il ragazzo-scimmia, la forza magnetica della  giungla come luogo di rinascita (ma al contempo anche di perdita totale di un’identità), le stessa figure dei trapassati, finiscono per assumere alla fine una profonda valenza metaforica di straordinaria pregnanza. Il lavoro del regista comunque non è mai  unidirezionale (a senso unico) , poiché il suo campo di indagine – tutt’altro che realistico già in partenza – è totalmente proiettato con una coerenza ed un vigore davvero esemplari, verso l’immaginario “assoluto”, la suggestione onirica  della fantasia e del sogno. E non importa allora se il racconto qualche volta si spezza e fa perdere il filo, o se il discorso narrativo in qualche punto vacilla e ci si disorienta un poco: anche nella temporanea “sospensione” che ne deriva, resta comunque sempre la prepotenza suggestiva di un’immagine che da sola si offre al nostro sguardo in tutto il suo splendore, e dunque ampiamente sufficiente a  mantenerci ancorati alla poesia visionaria di Weerasethakul alimentata qui come già detto, dalle filosofie e le credenze delle religioni orientali, che nella sua profonda ambiguità ci avvolge per ammaliarci ed incantarci nonostante tutto, perché i suoi film  (e questo in particolare) sono  erotici, estatici, erranti, diversi da ogni altro: sovente è impossibile raccontarne la trama ma le loro immagini restano a lungo impresse indelebili nella memoria (Carlo Chatrian)

Il percorso di un uomo che si prepara a morire e incontra i fantasmi di una vita, non è certamente di per sé un soggetto eccezionale (né tantomeno originale), ma la forza immaginifica ed enigmatica del regista rende davvero il film un suggestivo sogno a occhi aperti, unico, insolito, appassionante e allucinato, lo fa diventare puro cinema “visionario” fra redenzione e morte, cronaca e fiaba, che si insinua con prepotenza nella memoria, penetra sotto la pelle e scalfisce l’anima. Dimensione fantastica allora, ma contaminata però da elementi filosofici e religiosi reinterpretati alla luce delle tradizioni secolari, in un delirante eccesso di “meraviglioso” percettibilmente tattile che è quello di un mondo in cui restano totalmente labili i confini che separano i fantasmi dagli esseri umani  e il passato dal presente. nella costante, puntigliosa  ricerca di una assoluta, quasi maniacale, perfezione stilistica.

E’ indubbio allora che come accade anche con certe opere di Lynch, nemmeno questa pellicola  può essere “spiegata”, e tantomeno interpretata e razionalizzata, o condensata nel senso, con semplici parole che ne chiariscano il racconto fino in fondo: lo spettatore deve semmai avere il coraggio di lasciarsi trascinare dalle emozioni, fino ad esserne travolto,  perché  non c’è niente di trascendentale che ci si nasconde dentro, e ancora meno da far tradurre razionalmente dal pensiero, visto che il film si impone soprattutto per l’armonia delle sue forme, in quell’essere capace di trasmettere una intrigante  idea  di serenità ritrovata  scandita da momenti di assoluta libertà creativa fantasiosa ed originale, durante i quali la macchina da presa spesso in movimento, cerca di catturare la purezza e di immortalarla dentro ogni inquadratura, filmando realtà vicine e parallele,  vero e proprio incontro di suggestioni e desideri (come già accennato sopra),  che tenta di rimettere ordine tra le cose del passato per rendere più chiaro anche il presente, il tutto filtrato dalla dolcezza della malinconia, dall’inganno consolatorio e suadente della nostalgia in una meditazione sulla forza dell’abbandono e del sogno, che ricombinano e addolciscono le durezze distanti del quotidiano ( Domenico Barone).

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