Regia di Derek Cianfrance vedi scheda film
Blue Valentine racconta i due tempi dell’amore: la fase nascente dell’innamoramento euforico e quella finale del dissolvimento.
All’inizio ci sono i sogni appagati in un rapporto che si nutre di intimità; alla fine la disillusione; prima l’amore che strappa i capelli, poi la stanchezza, con la passione che si stempera e scivola per gradi impercettibili nella routine (quando subentra lo sconforto per le aspettative tradite, la tenerezza diventa inefficace e non basta più a saturare le crepe di una logora convivenza, anche perché è recitata e scaturisce, più che da sete reale, dalla nostalgia per un paradiso perduto).
Il titolo del film è lo stesso di un brano di Tom Waits, che non c’entra con la nostra storia, ma canta la stessa struggente disperazione.
I protagonisti sono Cindy e Dean (interpretati stupendamente da Michelle Williams e Ryan Gosling).
Nelle fasi dell’infatuazione appaiono come due ragazzi insicuri, forse intimoriti dalla solitudine: si sentono attratti e la fascinazione che provano, pur con qualche schermaglia, è potente; il rapporto che nasce, oltre ogni asimmetria, è dolcissimo.
Dieci anni dopo, la loro radiosa bellezza appare impolverata, gli sguardi smarriti e sghembi, i gesti incerti e reticenti: l’immutata confidenza ha sentore di rassegnazione e nell’aria è sospesa un’imbarazzante insofferenza.
Le stesse parole, le stesse canzoni, le stesse complicità di ieri sono rituali che hanno perso il loro effetto chimico; i due, pur vivendo incollati l’uno all’altra, annaspano nella solitudine.
Dal punto di vista narrativo, il film rimbalza da una stagione all’altra e si snoda senza nessun rispetto per la continuità temporale e la sequenzialità cronologica. Il regista, con continui salti di montaggio, mescola e alterna (a contrappunto) i momenti della tenerezza con quelli della crisi: i primi fatti di colori caldi e immagini sgranate, come filmini di famiglia girati in superotto (il rosso della passione); i secondi in digitale, con immagini pulite, livide e crude (il blu della frigidezza).
Al cinema – ma anche alla memoria – è permesso trasfigurare la realtà e manipolare i ricordi.
In certi momenti della vita, infatti, se si ripensa al passato e si tenta di ripercorrerlo recuperando la memoria del rapporto che l’ha sostanziata e ne ha intessuto la trama, è possibile (viene quasi naturale) compiere (involontariamente?) la stessa operazione (manipolatoria!) del regista: si ripescano cioè fasi fondamentali mischiate a circostanze irrilevanti (ma cosa è stato realmente importante e cosa apparentemente secondario?); affiorano alla mente alcuni passaggi essenziali (quelli che ti hanno costruito e quelli che ti hanno sgretolato) combinati alla rinfusa con flash di situazioni contingenti, istantanee, momenti marginali di giornate comuni. La vita, come un film, si snoda infatti – e si compone – secondo un susseguirsi incoerente di rari e brevi climax diluiti in lunghi passaggi piatti; nel suo insieme – coi rapporti che intrattieni, con le esperienze che attraversi, con le emozioni che ti agitano, ma anche con i tempi morti e la noia e la routine – ti costruisce e ti consuma, ti esalta e ti avvizzisce.
E, vista da una prospettiva “distante”, appare regolata dal caos.
Forse è per questa sottotraccia che il film cattura e disturba nello stesso tempo.
Cattura perché sa raccontare in maniera superba le contraddizioni dell’amore (quello che abbandona dopo averti invaso, rovina dopo averti illuso, distrugge dopo l’irresistibile esaltazione); o perché mostra momenti che tutti abbiamo attraversato, descrive schermaglie che ognuno di noi ha adoperato, scompone emozioni e paure che tutti abbiamo nel cuore, presenta esperienze che ognuno di noi conosce, pur nella diversità dei percorsi o degli esiti.
Disturba insinuando il sospetto che la differenza dei dettagli non muta sostanzialmente il senso (o il non senso) di ogni relazione.
Alcune scelte registiche e di sceneggiatura rendono prezioso questo piccolo capolavoro: come la straordinaria capacità di raccontare e mostrare l’alterazione dei rapporti senza mai schierarsi e far pendere la simpatia da una parte o dall’altra; o l’assiduo pedinamento che Cianfrance mette in atto non staccando mai l’attenzione dai due protagonisti per far sì che la loro ossessione diventi l’ossessione dello spettatore; o la diversità, nel rappresentare le due stagioni dell’amore, non solo nell’uso del colore, ma anche nei movimenti di macchina (prima fluidi, poi convulsi) e nelle inquadrature (prima ampie e inclusive della coppia, poi strette con frequenti controcampi).
Ovviamente il film non può avere un happy end: è impossibile ritrovare un piccolo anello gettato fra i rovi ai bordi di una strada; nessuna storia logorata può essere ricucita (come ben sanno, sempre, le donne); e nessuna “stanza del futuro” può produrre miracoli (come sempre sperano gli uomini, imperdonabilmente romantici, e cioè goffi e ottusi).
Nonostante tutto, Blu Valentine è un intensissimo film romantico che sa raccontare con straordinaria sensibilità, appassionatamente dolorosa, la natura misteriosa dell’amore.
Una love story resta infatti tale, indipendentemente dalla durata del rapporto e dalla sua conclusione.
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