Regia di Benoît Jacquot vedi scheda film
Villa Amalia di Benoit Jacqout ha dell'incredibile. Inclassificabile film francese del 2009, passato abbastanza inosservato da non sentirne parlare in giro, Villa Amalia è il resoconto dettagliato e irruento di una ricerca di liberazione. E anche questa definizione potrebbe risultare limitante, costringerebbe il film nei canoni di una pellicola drammatica-introspettiva. Invece c'è altro, molto altro, disperso fra una sequenza e un'altra. Gli occhi dello spettatore si spostano alla ricerca di un appiglio, ma la struttura filmica risente di scossoni destabilizzanti, stranianti, che si appagano di una musica diseducata e assai eterogenea e di un montaggio formidabile che interrompe le azioni sul chi vive dando libero spazio alle ellissi e al non detto. In sé e per sé la regia, all'inizio, sembra educata a movimenti fluidi e relativamente normali, rigidi e conformi al cinema francese "borghese", quello freddo e apparentemente distaccato. Lentamente, però, la stessa regia cambia, come cambia (o sembra cambiare) la protagonista. Come cambiano i luoghi, come cambiano i personaggi. Villa Amalia coglie immanentemente il movimento dell'essere umano, senza organizzarne o volerne cogliere il significato o la direzione. La stessa protagonista, Ann, la splendida Isabelle Huppert, dice in continuazione che non c'è un perché: artificio apparentemente banale, senonché contemporaneamente un'altra frase che pronuncia in risposta a molte altre osservazioni altrui è "c'est vrai", come ad indicare sempre e costantemente che le altre persone hanno ragione, fanno bene a trovare in lei il seme della follia, dell'assurdo. Ma è così che lei vuole (non) farsi vedere, nuda, priva delle contraddizioni più evidenti tipiche del ruolo sociale, di colui che è ben integrato, che ama e viene tradito, lavora ed è famoso, vive in una bella casa e ha un buon quantitativo di denaro. Le certezze borghesi, insomma, si sgretolano secondo un percorso preciso ma illogico, assolutamente coerente ma anche straordinariamente capriccioso. E' lei stessa a distruggere quelle certezze, a scrollarsi di dosso il peso della sua intera esistenza. Che sia un ritorno all'infanzia, la ricerca di una rinascita o una semplice autodistruzione è difficile dirlo: anche quando sembra sul punto di trovare il proprio appagamento, il film continua, quasi irrispettoso ma delicato, attento alla sua protagonista e al tragico evento che la porterà, alla fine del film, a nuove rivelazioni, vuote ma cariche di rilevanza.
La regia, come si è detto, distrugge un po' di tradizione filmica, ma non lo fa esibendo sperimentalismi o conclusioni ostiche compiaciute di sé. Il lavoro di Jacquot è "pulito", formidabile, sempre più nevrotico, scostante, disperso tra movimenti fluidi e macchine a mano, attanagliato da continue trasformazioni, mai fine a se stesso. E il film si appaga di questa sua libertà lentamente acquisita, la libertà da convenzioni (borghesi come registicamente accademiche) e la libertà di non esprimersi, di non dare un senso, di riprendere un vagabondare cercando di coglierne il battito emozionante. Villa Amalia potrebbe essere una ricerca, ma è anche un susseguirsi di constatazioni staccate, strappate sul chi vive dalla curiosità dello spettatore e violentemente gettate nell'oblio del non visto. Musiche che si interrompono, sequenze di breve durata, inconcludenti scambi di battute, un'estetica vorticosa che fragile si nasconde dietro il professionalismo acerbo e meravigliosamente scarno di Isabelle Huppert, dotata di una carisma tale da saper dare anima e corpo a un personaggio che ha creato tanta finzione e che adesso vuole ricreare la sua identità stavolta per vivere davvero. Porre fine alla disarmonia della sua esistenza fallace. La sequenza del concerto è in questo senso assai eloquente.
Da un primo momento in cui Ann vuole fare piazza pulita di tutto, vendendo la casa, lasciando il fidanzato e quant'altro, si è sul punto di interpretare il suo dissidio interiore come quasi pirandelliano, di un personaggio la cui identità scissa cerca di distruggere i caratteri con cui gli altri la riconoscono in quanto Tizio o Caio in quella data società. Ma da un certo momento in poi il film prende una piega inaspettata. I viaggi di Ann si districano dalla ragnatela di fissità formali e inquadrature rigide (ma vibranti sottopelle) della sua esistenza e di una forma filmica regolare, e si caricano di un anarchismo tranquillo che si gode la sua libertà e la condivide con gli altri. Ann cambia pelle come cambia vestiti, fa una serie di incubi, rivela il suo desiderio di solitudine, si sente triste ma in fondo le piace, si ritrova su un'isola in cui, fuori dalla sua patria e "fuori da se stessa", può trovare la vitalità. L'idea che ci si fa è che Ann fuoriesca dalla Vita per viverne un'altra (o magari scoprire la Vita stessa dall'esterno), ma il (non)progetto che elabora non è così semplice, passa attraverso le sue personali speranze e le sue intime disillusioni.
L'apparizione di Georges, all'inizio del film, tinge l'intero comportamento di Ann di un'altra tonalità, quella della tensione verso la propria infanzia, i propri ricordi, un confronto instabile con la propria memoria, tanto che la figura di Georges finisce per avere la natura palpabile dei sogni ad occhi aperti, un uomo che non comunica mai con nessuno e che esiste solo in funzione di Ann. Non tanto diversi i due italiani con cui lei fa amicizia, o l'anziana signora, o il padre che appare alla fine. Tutti parte del mitico mondo di Ann, un fantastico campionario di desideri e di sconfitte, di personaggi inesistenti che lambiscono la di lei esistenza come figure evanescenti, capaci di concederle amore e di inseguirle in capo al mondo, pur di accontentare le sue pretese di appagamento. Un appagamento che Ann raggiungerà? Forse solo nel sogno, forse solo nel luogo di cui si è innamorata, disperdendo se stessa. Una conclusione positiva che non è una conclusione, e tiene a rivelare, semplicemente, che Ann "ha ancora molto da imparare" (parole del padre), come fosse ancora una bambina che irruenta persegue i suoi capricci e li rispetta fino in fondo. Da qui il pianto, da qui il desiderio di liberazione.
Un racconto antropocentrico che guarda alla donna Ann, alle sue metamorfosi, a un suo personale resoconto esistenziale. Lasciando trapelare spesso una dimensione onirica e rigettando la dimensione folkloristica in occasione del suo viaggio in Italia. Coinvolgendo fin dalla prima sequenza. Destando probabili fischi da parte di un pubblico che non sa cos'è il cinema: un film da difendere e, se possibile, da amare.
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