Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
"Restless" è Enoch: irrequieto e senza sonno dopo una esperienza di coma dovuta ad un grave incidente stradale nel quale i genitori hanno perso la vita. Senza aver potuto rivederli (neppure al funerale, dal quale, per motivi di salute, fu escluso) ha elaborato, oppure no?, il lutto in maniera personale e strampalata. Si aggira per i funerali altrui respirando morte ed in qualche modo venendone nutrito ridando ogni giorno vita ad una vita che è morte. O ad una morte in vita. Estraniato dalla realtà non può che ritrovarla in qualcuno che sta vivendo la sua medesima condizione: una malata terminale.
Raccontato così, "Resless" sembrerebbe una specie di teen movie strappalacrime, solo un pochetto più intellettuale: a metà strada fra "Love story" ed "Harold e Maude", con un pizzico di "Stand by me" (la scena del treno è identica) e richiami ad opere precedenti ("Belli e dannati" ma anche "Elephant"). Sembrerebbe e sorprendentemente …. lo è! Gus Van Sant, regista di indubbio talento e che da sempre ha il mio appoggio incondizionato (non che credo la cosa gli interessi molto) per la contradditorietà e quasi incoerenza della sua carriera, firma l'ennesima opera spiazzante. Con le consuete capacità ma sostenuto da un soggetto e sceneggiatura tremendi firmati Jason Lew (un plus negativo per i dialoghi. 1 ora e 27 minuti di parole inutili di cui salvere giusto il monologo fuori campo fra il minuti 79 ed il minuto 81) e due attori discutibili: un acerbo Hopper e la sopravvalutata ed insopportabile Wasikowska. A cui si aggiunge l' ennesima melensa e prevedibile colonna sonora di D. Elfman. Ne viene fuori un film noioso e banale, costosissimo (15 milioni di dollari il budget), discontinuo e soprattutto poco emozionante, men che meno commuovente. Salvato in extremis dal tracollo totale, grazie ad una fotografia accettabile e soprattutto ad una buona regia. Che dà il meglio di sé nei terreni più conosciuti dell'introspezione soggettiva all'interno di una narrazione sociale fatta soprattutto ad immagini (i titoli di testa e tutti i primi 15 minuti) ma che non si trova nei restanti soporiferi 72 minuti che dovrebbero narrare una storia d'amore e di morte e che invece lasciano allo spettatore un senso di freddezza se non fastidio (i baci, con il sonoro fatto di saliva, mi hanno disturbata come da parecchio tempo nessun altra scena). Come detto, il peccato originale sta alla base: la scrittura. Non solo il soggetto è scontato, ma lo svolgimento è pretenzioso e falso: tutto è assolutamente monocorde e quando mai lo è nella vita? ci si chiederebbe. Anche le persone malate, anche quelle ferite e tramortite, godono di istanti di di rabbia, di illusione, di disillusione, di stizza, di impazienza, persino frazioni di secondo di gioia incontenibile, di soddisfazione, di piacere. Dov'è tutto questo? I personaggi non hanno una loro struttura intrinseca ma sono descritti utilitaristicamente solo nella finalità dell'assunto che si fa conclusione fumosa e malsostenuta: l'amore vince la morte (?) o forse l'amore è forte, anche davanti alla morte. A dirla tutta, quella "struttura intrinseca dei personaggi" pù che "non esserci" non è sviluppata: il risultato non cambia, comunque. Molto ci sarebbe stato da indagare sulla propensione naturalista, darwiniana eppure credente in una fede laica della giovane Annabelle contro il nichilismo di Enoch che accenna, nello svolgimento, ad una "revisione". Solo che è il connubbio fra i due che non sta in piedi: non c'è empatia. Né fra i personaggi (il loro incontro pare un deterministico "riconoscersi" ma assolutamente non "scegliersi") né fra gli attori. Enoch-Hopper, spettinato a dovere, mantiene una innocua apatia lungo tutto gli 87 minuti. Annabelle-Wasikowska persiste ed insiste in una serie ininterrotta di sorrisetti perfettini senza neppure una umana sbavatura (proposta per la santificazione immediata). Posticcia ed incomprensibile (perché?) la figura del fantasma kamikaze giapponese. Gli spezzoni in bianco e nero su Hiroshima e Nagasaki più che fuori luogo rasentano la caduta di stile. Come la scena finale al funerale, con Enoch davanti al microfono che ricorda in flashback i "bei momenti passati insieme". Ricattatorio e retorico. Una storia d'amore? Boh. Un film sull'amore? Boh. Si vede che manca qualcosa a me. Perché qui amore si vede, si ascolta. Ma non si sente, con il cuore.
Lontanissimo dai fasti di "Drugstory cowboy" di "Elephant" o "Milk". Ma, dal mio personale punto di vista, questo è un punto a favore di "Restless". Direi proprio l'unico. La conferma di un autore fuori dagli schemi e che mette in discussione sé stesso anche sbagliando o scegliendo progetti empaticamente lontani. Un peccato di ambizione probabilmente (a differenza di quanto segnalato da altri utenti ritengo che i sentimenti siano quanto di più "difficile" cinematograficamente parlando) perdonato. Almeno da me. In nome della sperimentazione e di "poliedricità" che a Gus Van Sant, come a pochissimi altri registi contemporanei, bisogna proprio riconoscere.
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