Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
Essere vivi e dialogare incessantemente con la morte.
Perché lei fa parte di noi più di quanto ci saremmo aspettati.
Non è un vago promemoria da tenere a mente mentre la vita fa il suo corso ordinario,
non è una scadenza da saldare in un futuro, ci si augura, il più lontano possibile.
Quando la morte è la costante di due giovani acerbe esistenze, la piega che ha preso il loro stare al mondo, il vicolo cieco in cui è andato ad infilarsi il loro personale cammino di esseri umani, allora, il respiro vitale che s’intreccia con il nulla assoluto, il calore irradiato dalla pelle che si fonde col freddo acciaio di un obitorio, diventano la norma, la condizione naturale nella quale essi si muovono giocosamente, in cui paiono sentirsi a proprio agio.
Una dimensione ludica impalpabile, dove la solitudine e il dolore si fanno tollerabili.
Chi avverte sul collo il fiato pressante della morte non può fare a meno di andarla a cercare, per guardarla in faccia.
Conoscerla, per non averne più tanto timore.
E prenderla per mano e continuare a camminare, per breve o lungo tempo che ancora resta.
Ecco, allora, che compaiono quelle che vengono definite ‘devianze morbose’ -passeggiare al cimitero, imbucarsi ai funerali altrui, confidarsi con un amico immaginario/fantasma, tracciare col gesso la propria sagoma riversa a terra- che altro non sono che la necessità impellente, fisiologica, di familiarizzare con l’ignoto, con il più grande spaventoso enigma a cui l’uomo non sa dare ancora una risposta.
Una maniera bizzarra di elaborare il lutto. Avvenuto e quello che non tarderà ad avvenire.
Di chi è già andato via, partito, così, all’improvviso…, e nemmeno il tempo di salutare ed essere salutati.
Come l’abbandono che non prevede preavviso, e lascia spiazzati, disorientati, avviliti, feriti. Traditi.
Di chi si appresta ad andare, e non può non farlo, per una sentenza pronunciata irrevocabile.
Ed ecco, allora, che viene in aiuto la scienza, le teorie sui delicati inalterabili equilibri della Natura, sulle leggi che ne regolano il perenne divenire (morte e rinascita), per trovare un senso (dove senso pare non essercene), un motivo che possa giustificare, rendere accettabile un così infausto destino.
Ed ecco, ancora, che si sviluppa, a mò di difesa immunitaria, un rigoglioso senso dell’umorismo venato di rassegnata consapevolezza, macabro, preoccupante per il resto del mondo ma salvifico per chi è in gioco, capace di ridimensionare la tragedia in atto, focalizzarne la portata, controllarne (o illudersi di farlo) la potenza emotivamente devastante.
Avere in comune la morte e incontrarsi, comprendersi come non è mai successo con nessun altro, specchiarsi l’uno negli occhi dell’altra e riconoscersi, innamorarsi e nutrirsi avidamente di quell’esiguo tempo ancora concesso, è uno di quei pochi assurdi miracoli che raramente la vita dispensa.
Gus Van Sant ci immerge in una nuova storia di giovinezza infranta, immersa nella nostra contemporaneità ma spoglia di specifiche coordinate spazio-temporali, come per dire ‘ovunque nel tempo’, e ne rimarca l’idea utilizzando un certo raffinato gusto retrò nell’abbigliare i suoi giovani, diafani, sempre bellissimi, protagonisti.
Storia, ancora una volta, estrema e dolente, eppure intrisa di pudore, dove appaiono perfettamente dosati il senso della perdita senza rimedio ed una delicatezza e levità (di sguardo truffautiano) nel raccontarli, illustrandola secondo un registro stilistico che stavolta -a sottolinearne la valenza universale- predilige una narrazione convenzionale, sicuramente tradizionale rispetto alla destrutturazione della stessa (unita a frammenti che ritornano in loop per evidenziare la persistenza di turbati stati d’animo), cui ci ha abituati nei suoi ultimi, più sperimentali, lavori (Last days e, in modo più compiuto, Paraniod Park).
Per rimanere abbagliati, rapiti, a vagare in balìa di una triste gioia nel castello mai lezioso di amore e morte di questi moderni Romeo e Giulietta sui generis, per commuoverci dinanzi alla purezza disarmante delle loro azioni e lacerate strazianti reazioni, per piangere, senza vergognarci, su uno splendido finale pregno di poesia, dove il cordoglio passa per l’essenzialità e la verità delle immagini piuttosto che per la ridondante inutile retorica delle parole.
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