Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
Van Sant è una "croce e delizia" del cinema USA contemporaneo. Se i fasti di "Da morire", "Elephant", "Last Days" paiono lontani, non è che si possa nemmeno parlare di un crollo nè forse di una involuzione. Il fatto è che Van Sant, film dopo film, diventa sempre più ambiguo e spiazzante. In genere, ha sempre cercato di scindere il mainstream dall'alternativo: da una parte i film edificanti alla "Milk", all'altra lo sperimentalismo coraggioso di "Paranoid Park". Nell' "Amore che resta" prova a far convergere i due percorsi. Prova ad innestare un'idea di cinema anti-convenzionale in un tessuto filmico che pare avere tutti i crismi del cinema "di regime", tutte quelle convenzioni, quelle sottolineature, quall'impacchettamento estetico che permette ad un film di passare indenne l'odiosa "censura di mercato" della prima serata in TV. Nello specifico, "L'amore che resta" rifonda la poetica vansant-iana a partire dalla scena clou, discussa, simbolica, ridicola, sublime di "Paranoid Park": un uomo appena tagliato in due che si muove e si rivolge al suo giovane involontario carnefice, un momento di "sospensione dell'incredulità" necessario a Van Sant per penetrare nelle menti complesse degli adolescenti abbandonati. Tutto "L'amore che resta" viaggia su questa dimensione visionaria: il protagonista dialoga con un amico immaginario, un kamikaze giapponese "reduce" dalla WWII, praticamente la sua coscienza. Il problema è che questo espediente metafisico rimane poco sfruttato sul piano della creazione figurativa: Van Sant non riesce a piegare il copione ad una ricerca di senso sul piano visivo, rimanendo schiavo delle parole, della dialettica, qualche volta della retorica. Dove riesce, invece, in maniera encomiabile il buon Van Sant è nella direzione degli interpreti (bravissima lei, un po' meno lui): d'altra parte, nessuno come GVS oggi in USA sa rappresentare l'universo adolescenziale, lontano dai più corrivi stereotipi. In questo senso, alla sua maniera "indie" e obliqua, è un po' il Nick Ray dei nostri giorni. Che poi ciò che pensano, provano, immaginano i giovani problematici di Van Sant (come quelli "bruciati" di Ray) rimane sempre un mistero. Altro merito indiscusso di questo film è la rappresentazione straniante degli effetti della morte, del lutto, della malattia, del dolore: Van Sant punta in alto, riflette sui peggiori drammi individuali, cerca (attraverso i suoi personaggi) un senso alla tragedia della vita, e lo trova in una positiva per quanto sofferta, ironica per quanto oltraggiosa, dolce per quanto funesta, accettazione della stessa in tutti i suoi risvolti.
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