Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
Strano regista, Gus Van Sant, capace di passare con disinvoltura da mega produzioni come Will Hunting, Psycho o Milk a opere da filmmaker indipendente come questo L'amore che resta. Ciò che spiazza ancora di più è la schizofrenia del mood che percorre i suoi film: la tragedia del Columbine (Elephant) trasformata in un apologo algido e cerebrale e poi operazioni come quella di questo film, carico di atmosfere stucchevoli.
Lo spunto è una via di mezzo tra Love story e un cult movie degli anni '70, Harold & Maude, balorda storia d'amore tra un ragazzino e una vecchietta, entrambi frequentatori abituali di funerali di persone ignote. Ciò che nel film di Ashby era ironia e gusto del grottesco, qui si trasforma in un bigino di psicologia spicciola, al centro del quale ci sono due ragazzi che frequentano anch'essi funerali a sbafo. Entrambi devono fare i conti con la morte: lui (henry Hopper, figlio di Dennis) ha perso i genitori; lei (una Mia Wasikowska insopportabilmente smorfiosa) sta per morire e vuole abituarsi all'idea. Come da copione, si innamorano, a dispetto dei temperamenti opposti (lei è solare, lui cupo e scorbutico), e si sdilinquiscono in una serie infinita di paroline che assicurano il diabete.
Scritto da Jason Lew e contornato anche dai riferimenti alle quinte della Storia (il pilota giapponese fantasma morto per la nazione…), il film di Van Sant sembra avere la pretesa di dire la sua sul nichilismo giovanile dei giovani d'oggi, ma non va oltre un registro laccato, lezioso e di maniera che oltretutto gioca con magniloquenza sulla collocazione atemporale.
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