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L'amore che resta

Regia di Gus Van Sant vedi scheda film

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La recensione su L'amore che resta

di OGM
6 stelle

Una favola e una storia di fantasmi. Senza facili sentimentalismi, e con quel pizzico di originalità che si addice alle attualizzazioni dei temi più classici ed intramontabili. L’amore che va oltre la morte, o, almeno, crede con tutta l’anima di poterlo fare. E intanto si trattiene, con la trepidazione di un bambino curioso, nella sua anticamera. Enoch e Annabelle si tengono per mano, mentre stanno fermi e assorti davanti ad una porta chiusa. Dietro la quale, molti anni prima, sono spariti per sempre i genitori di lui. E che, tra pochi mesi, anche per lei si spalancherà, probabilmente sul nulla, oppure su un aldilà dal quale si può tornare, sotto forma di apparizione, facendo magari da spirito guida. Come Hiroshi, il giovane kamikaze giapponese che è l’amico invisibile di Enoch. Ghost e Love Story bussano al nostro cuore per potervi rientrare, ma temono di non esservi più accolti con lo stesso calore di una volta. E infatti si fanno timidi ed esitanti, forse persino un po’ freddi e distaccati, girando intorno ad un argomento che non osano affrontare di petto. In questo film si divaga sugli insetti necrofori, sui discorsi funebri,  sui misteri che si celano dietro le celle frigorifere di un obitorio, sulla gloria che spetta agli eroi martiri: tutti argomenti tradizionalmente macabri, ma ormai addolciti dall’usura del tempo. Si scorge perfino un po’ di tenerezza dietro quelle fantasie da libro illustrato, tra i disegni di animali tracciati a matita su un taccuino, stando seduti sotto un albero, e quella immaginaria Lady Wellbether divorata da un grande squalo bianco.  Tutto rispettosamente romantico, e delicatamente insipido: una poesia in punta di dita, scritta con caratteri piccoli e ordinati, stando bene attenti a non uscire dai margini. Si può davvero osare di più, senza scadere nel pathos. Si può evitare il compromesso di guardare alla realtà da lontano, facendo finta di starci nel mezzo. Il tentativo di Gus Van Sant di far passare per testimonianza viva quella che è solo una studiata perifrasi letteraria produce un effetto languido ma artificioso, sollevato di un palmo dalla terra dove il dolore vero giace dimenticato, avvolto nella nebbia di un lirismo indiretto, filtrato e sovraccarico di immagini fantastiche. I significati traslati sono diluiti nell’ingenuità di improbabili richiami all’infanzia – non quella dei protagonisti, ma quella di trenta o quarant’anni fa -  affidati al gioco de L’allegro chirurgo e ad un piccolo “xilofono” colorato (che, in realtà, è un glockenspiel). Questo Restless sembra voler giocare, con diligenza, ma con poca convinzione, con le versioni démodé di idee immortali, riconfezionandole in un’autorialità dalle tinte pastello, in parte inedita, però priva di un carattere autonomo, in grado di ridare nuovo lustro agli antichi tesori. La bellezza del pensiero si riduce così ad un’elegante gradevolezza, soffusa ed acerba,  ma non nel modo che naturalmente scaturisce dallo spirito spavaldo ed incerto della giovinezza.  

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