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Mr. Beaver

Regia di Jodie Foster vedi scheda film

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La recensione su Mr. Beaver

di (spopola) 1726792
6 stelle

The Beaver è un termine che assomma in sé significati molto diversi almeno come “lettura interpretativa”, visto che nello slang americano il “castoro” della traduzione letterale della parola, diventa anche un eufemismo per indicare più sibillinamente - ma a mio avviso con molta fantasiosa pertinenza - i genitali femminili: un po’ di irriverenza non guasta ha dichiarato proprio a tale riguardo la Foster in un’intervista, nel corso della quale ha ricordato anche che The Beaver  (o meglio la sceneggiatura originale della storia che circolava già da un po’ di tempo fra gli studios) era in principio molto più virata verso il rosa della commedia:  doveva farlo questo film  un altro regista, Jay Roach con Steve Carol come interprete principale, e quando l’ipotesi è naufragata, hanno pensato a me che sono subentrata di buon grado. Non sono né snob né schizzinosa: mi è capitato spesso  anche come attrice di sostituire altri colleghi o colleghe (due volte Nicole Kidman per Panic Room e Il buio nell’anima e una volta persino Sean Penn per Flightpan – Mistero in volo). Ma in questo caso ho voluto essere chiara: se accettavo, il film doveva essere fatto a modo mio e non sarebbe stato certamente una commedia, visto il tema che tratta. (…) La depressione è un problema che conosco molto bene anche se nel film è un poco estremizzato:  “The Beaver” è comunque una favola sia pure nera, e tale resta in fondo, ma è soprattutto una parabola che ho utilizzato  per dire che quando si è in quello stato in cui la vita sembra offrirti solo due soluzioni, ovvero ergastolo o pena di morte, non c’è niente che ti permetta di dire ancora una volta “voglio vivere”, oppure “voglio respirare ancora”,  e nulla  appare poi così stravagante o assurdo. Nemmeno un castoro logorroico.

Queste dunque le dichiarazioni programmatiche dell’autrice, e se quel che ci racconta risponde alla realtà dei fatti, e non c’è ragione di dubitarne,  dobbiamo ammettere che pur mantenendo inalterate le premesse, ha fatto del soggetto davvero un’altra cosa (a mio avviso però non è riuscita  a mantenere completamente e fino in fondo il suo programma di intenti che si screpola proprio nella parte risolutiva, come tenterò di documentare più avanti a conclusione della mia opinione).

 

Jodie Foster  da tempo positivamente attiva anche in qualità di regista (pur se poco prolifica in tale veste, visto che ha realizzato soltanto tre titoli in ben 15 anni di carriera) ha coltivato e privilegiato con grande dignità e competenza a partire dall’opera d’esordio, un cinema denso di tematiche esistenziali nobilitato da una classicità formale molto accurata. Questo Mr. Beaver (così è stato titolato nella versione distribuita in Italia) fra tutto ciò che ha portato davvero a compimento, continua sulla stessa linea dei suoi precedenti lavori, ma  è certamente fra tutti, la pellicola più bislacca e bizzarra da lei realizzata, perché non è davvero facile, così di primo acchito, anche far accettare solo l’idea di un Gibson che se ne va in giro dialogando con una marionetta infilata al braccio a cui dà addirittura voce.

Eppure anche l’assurdo riesce alla fine a trasformarsi qui in un intelligente simbolismo realizzato (immagino) con una punta di perfida ironia proprio a partire dalla scelta di Gibson come protagonista (che qui sembra davvero rigenerato e offre una prova superba e rabbiosa totalmente al servizio del personaggio), un attore/regista che francamente come uomo ha dato il peggio di sé in più di un’occasione, ma che ha accettato “umilmente” di mettersi in discussione (in una scena si prende persino a frustate) in un progetto che poteva sembrare molto lontano dalle sue corde di interprete un po’ convenzionale e che ha i suoi punti di forza soprattutto nella penna irridente di un nuovo interessante sceneggiatore (stando a questa prova, è un nome che fa ben sperare per il futuro) e nella notevole sensibilità della regista.

Un film coraggioso quanto di difficile lettura comunque (la storia di un uomo affetto da un grave disturbo della personalità che si concentra anche sulle conseguenze che produce nella famiglia una patologia di siffatta specie) erroneamente liquidato con la definizione troppo semplicistica e precipitosa di melodramma, e altrettanto criticato a partire dalla scelta dell’interprete (il che sa persino un tantino di preventivo “malanimo” nei confronti dell’”odioso” Gibson). Lungo la strada il film sfiora magari troppe tematiche e questo è anche vero, qualche sottotrama è convenzionale, e sulla parte finale c’è certamente molto da ridire, ma la Foster comunque mette in campo interrogativi tutt’altro che banali che riguardano soprattutto le dinamiche familiari, disseminando il film di felicissime “intuizioni” (l’arte di strada trasferita nella stanza e la scatola della cena dell’anniversario, tanto per citarne alcune) e di altrettante indovinate sequenze.

La Foster insomma intuendo le effettive potenzialità della storia, ha accettato una sfida tutt’altro che facile nel decidere di cimentarsi nella realizzazione pratica di un progetto ambizioso e complesso come questo, che ha affrontato con professionale determinazione al fine di piegarlo davvero ai suoi voleri. Ha infatti organizzato la materia senza lasciare quasi nulla al caso, a partire da una messa in scena molto curata, dove ogni elemento ha sempre una sua specifica funzione anche quando è solo decorativa: si pensi  per esempio agli interni dell’appartamento dove vive la famiglia Black e a come ben contribuiscono a sottolineare la non omogeneità dell’esistenza, quasi un “contrasto”  visivo dei protagonisti che prende forma dall’arredo (il disturbante tappeto a righe) e nella luce che filtra sovente attraverso le fessure creando irrequietezza.

Molto curate anche le psicologie, a partire da quella della moglie (sul protagonista ci ritornerò più avanti) che incarna a suo modo la perfetta “apparenza” filtrata del presunto ordine della casa (un personaggio abbastanza complesso per la definizione del quale scende in campo anche come attrice una Jodie Foster molto misurata, con i capelli sempre in ordine che non fanno mai una piega, l’abbigliamento sobrio ed elegante e i movimenti decisi e controllati che ostentano un’assoluta sicurezza che è contraddetta però anche semplicemente dal fatto - che non la fa dormire di notte - di non riuscire mai a vedere il figlio più piccolo davanti all’ingresso della  scuola, che non è certamente un buon segnale di equilibrio). Elementi fittizi, quasi di facciata insomma che celano invece cercando di occultarlo, un disagio profondo e troppo trattenuto che va ben oltre il personale “star male”, che riguarda e coinvolge anche la disgregazione della casa che ne rappresenta il perfetto contraltare “specchiato”, poiché quell’appartamento tanto lindo e curato in superficie, in effetti sta invece andando a pezzi insieme ai personaggi che lo abitano: un muro in particolare porta  evidenti i segni delle testate di Potter - il figlio maggiore della coppia, anch’esso non privo di problemi - che lo hanno quasi “disintegrato”, e l’impianto idraulico è praticamente in “dismissione totale” anche se nessuno se ne cura.

Si può allora dire che più diventa evidente la studiata razionalità con cui  la donna cerca di mettere in scena la “rappresentazione” di una normalità borghese che ormai si è decomposta, più risulta palese e stridente l’irrazionalità di Black, resa irragionevole e complicata da quel suo “mal de vivre”  che dilaga.

E non è allora certamente un caso che persino l’altra famiglia parallela della storia (molto più marginale), quella di Norah, l’amica di liceo di Potter, nasconda un dramma esistenziale ancora più straziante, quello del suicidio del fratello della ragazza, a conferma di un mondo che sta davvero cadendo a pezzi.

 

Il soggetto solo in apparenza un po’ paradossale, vede al centro del racconto Walter Black, un uomo irrimediabilmente divorato dalla depressione, che non riesce più non solo a lavorare, ma anche ad essere sereno e a mantenere un equilibrio, che non è capace insomma nemmeno di continuare a compiere le più semplici e normali azioni quotidiane, o a rapportarsi “serenamente” con la sua famiglia. Il crescente e persistente disagio interiore, lo porta così ad abbandona la moglie e i due figli, deciso a farla finita una volta per tutte e dare così termine anche alla sofferenza. Casualmente però mentre girovaga per la città in cerca del coraggio necessario, trova fra i rifiuti una marionetta che raffigura un castoro e che, incredibilmente, sarà proprio la cosa che gli cambierà  la vita. L’uomo infatti da quel momento – in un percorso verso una possibile guarigione che sarà in ogni caso lungo, problematico e faticoso - comincia a sdoppiarsi fra il vero se stesso, imprigionato nella malattia, e il se stesso castoro (a cui dà anche voce) che invece sembra essere più pronto a ricominciare a vivere.

Mr. Beaver affronta dunque un discorso difficile quanto centrale come quello della malattia psichica e delle conseguenze che si porta dietro. Lo fa, scegliendo di rappresentarla proprio nel quotidiano quella malattia, raccontando i rapporti più intimi e privati, quelli che riguardano appunto la famiglia, per mostraci quanto sia difficile conviverci e comprenderla davvero, e soprattutto come non dovrebbe mai essere sottovalutata perché modifica le persone e a lungo andare frantuma i rapporti e le comprensioni, poiché non si è mai sufficientemente preparati al cambiamento e più che fronteggiare, si è costretti a subire un qualcosa di terribilmente ingiusto che mette in discussione tutto il proprio vissuto a partire dalla sfera affettiva che è quella che più di ogni altra cosa ne risente. Mette però in scena a mio avviso anche l’impotenza della medicina e il totale fallimento di ogni rimedio terapeutico tradizionale, una posizione che farà  probabilmente infuriare gli psicologi qui messi definitivamente fuori campo, perchè Walter Black è l’esempio lampante di come la terapia possa non essere sufficiente (non lo è quasi mai per la verità) quando il disagio di vivere – o il cervello rotto, come lo definisce il piccolo Henry – ha radici così sottili, ramificate e incerte che impediscono di individuare persino il bandolo della matassa indispensabile per tentare di districarsi dentro quell’intricato tafferuglio di sensazioni negative.

Il castoro stesso è poi in fondo un espediente che funziona solo in parte, se vogliamo, visto che alla fine non rappresenta  un metodo “socialmente” comprensibile purtroppo (e men che mai “adattabile”), un qualcosa insomma che qui sembra semmai assomigliare di più a un compromesso un po’ bislacco che finisce per accentuare le stranezze di un uomo e del suo disordine mentale e come tale, capace di creare molto imbarazzo e altrettanta diffidenza che solo la natura ingenua e non contaminata di un bambino come Henry riesce ad accettare fino in fondo come cosa normale e giusta.

Così anche il pupazzo rischia di diventare alla fine un nemico maligno e oscuro, soprattutto per  quella moglie testarda che ingenuamente tenta di riportare alla ragione il compagno utilizzando i pochi mezzi “razionali” che ha a disposizione, come quello di fargli rivedere le immagini di un periodo felice in cui tutto “andava bene”, ma totalmente incapace di intuire o di prevedere però che proprio la visione di quelle foto che evidenziano impietosamente la “serenità” perduta finiranno per acuire ulteriormente la sofferenza di una mente sempre più irrecuperabile alla ragione. La forza sovversiva del castoro finisce così per deflagrare nella definitiva presa di coscienza –  più degli spettatori che dei personaggi però – che ci si trova di fronte all’elemento assolutamente patologico di una malattia mentale che si può diagnosticare, ma che non presenta mai alcuna certezza di effettiva guarigione.

Non siamo dunque di fronte a una commedia nera  né a un melodramma familiare, questo è fuor di dubbio: la materia è molto più complessa Dobbiamo infatti considerare che il film presenta  due differenti e chiari piani di lettura: quello più evidente e di immediata comprensione che riguarda una situazione di grave disagio familiare (per altro filtrata da un’apparente dose di ironia) che si risolverà davvero soltanto dopo un  trauma molto significativo ed importante, ma anche un altro indubbiamente più inquietante e profondo e al quale forse doveva essere prestata maggiore attenzione, che va a toccare gli oscuri meandri della mente umana e che rimane sostanzialmente irrisolto, per l’incapacità di fornire soluzioni e risposte anche solo parzialmente rassicuranti o razionali.

Eppure William Black non  pare privo di una buona dose di  autoconsapevolezza, che è poi quella che il castoro fino a un certo momento della storia, riesce a interpretare e a rendere perfettamente palese. Ma come nelle favole, il protagonista deve separarsi da qualcosa di molto personale, arrivare addirittura a mutilarsi, per poter progredire (Micaela Veronesi) e tentare di trovare così una via d’uscita, perché la traslazione nell’altro non è sufficiente e finisce per creare nuovi problemi.  Consumata la tragedia – che è inevitabile in queste circostanze -  preso atto della irrimediabilità del dolore, la vita continua però a scorrere, e il finale sembra così voler scivolare quasi all’improvviso e molto banalmente con tono addirittura repentino, nell’“e vissero felici e contenti” di prammatica di ogni lieto fine che si rispetti.

E’ a questo punto allora che la Foster perde il controllo della situazione e smarrisce il sentiero e il doppio livello del racconto: lo scarto buonista non ha allora senso, proprio perché diventa un  evidente “accomodamento” rincuorante,  ed è il neo che rappresenta la vera pecca del percorso, una incredibile “stecca” che disturba e sporca  anche molto del buono che c’era stato prima, lasciando nello spettatore un fastidioso senso di delusa incompiutezza, visto che il tutto si risolve “all’improvviso” in modo davvero frettoloso e involontariamente un po’ grottesco (la Foster ha dovuto forse pagare il necessario “pegno” - nonostante le sue dichiarazioni - alla tradizione dell’happy end che rende meno indigesta la pietanza?). Può darsi, ma è un vero peccato che le cose siano andate in questo modo. In ogni caso il problema per lo spettatore resta ed è abbastanza grave, perché inaspettatamente si trova a doversi confrontare con un pericoloso eccesso di patetismo che non giova alla credibilità del racconto e dei personaggi cosi faticosamente costruita.

Insomma di fronte alla complessità dei temi sollevati, questo finale disturbante e sbrigativo, appiccicaticcio come la melassa sembra essere il frutto di una dannosissima approssimazione narrativa quasi di compromesso, che rischia di far dimenticare quanto invece fossero interessanti, articolate e buone non solo le premesse, ma anche lo svolgimento di quasi due terzi della messa in scena.

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