Regia di Jodie Foster vedi scheda film
Io credo che quando si sceglie questo tipo di "teatro" ci sono due strade possibili. O fai come in quel famosissimo film con James Stewart (a tuttoggi il più celebre con un "amico immaginario") e il suo leggendario coniglio inesistente "Harvey". In quel caso la vicenda veniva risolta attraverso un umorismo leggero e delizioso. E questa non mi pare proprio sia la scelta qui operata da Jodie Foster. L'altra unica opzione era quella di raccontare la storia mantenendo il registro del dramma. Certo, non stiamo parlando di un film tragico, tuttavia è oggettivamente innegabile che il tono serio prevale nettamente su quello ironico. E qui casca l'asino. Perchè non puoi raccontare una storia così bislacca prendendoti sul serio e, quel che è peggio, pretendendo che anche gli spettatori la prendano sul serio. La vicenda è ormai risaputa, tutti i giornali l'hanno riportata. Un capitano d'industria entra in una profonda crisi depressiva e questo s'accompagna a un taglio dei ponti tra lui e i famigliari che non riescono più a sostenere il suo desiderio di isolamento autodistruttivo. Walter Black (questo il suo nome) si cimenta perfino in un paio di tragicomici tentativi di suicidio. Finchè, quando ormai tra lui e il resto del mondo sembra essere calato un muro di nebbia, ecco che Walter viene folgorato dalla soluzione in cui lui intravede la salvezza della sua anima. Mi vergogno perfino a raccontarlo, ma questa soluzione ha le sembianze tristi di un bruttissimo pupazzo di stoffa raffigurante un castoro. Insomma, Walter si beve il cervello e riesce a ricavare dall'amicizia col pupazzo una forza interiore che gli permette di rialzarsi dalla crisi in cui era caduto. Ecco dunque che egli cerca di riavvicinarsi alla famiglia (in parte riuscendoci, ad eccezione del figlio maggiore, che lo detesta quasi ideologicamente) e addirittura riesce a conseguire risultati brillantissimi con la sua attività di imprenditore. E qui assistiamo a scene grottesche, tipo lui che si rivolge con tono autorevole ai suoi dipendenti sempre con 'sto "coso" di pezza infilato nella mano destra. E sempre conciato a questo modo partecipa pure ai talk show televisivi. Ma a questo punto entrano in ballo dinamiche che attengono anche allo "spirito" del pupazzo che reclama sempre più spazio per sè, scatenando un violento conflitto tra Walter e il suo "amichetto" che sfocerà prevedibilmente in tragedia. E già associare la parola "tragedia" ad un meschino sgorbio di stoffa è una roba che fa ridere i polli. Ma tant'è. Dopo l'evento drammatico cui accennavo, ciascuno prenderà coscienza delle proprie responsabilità e delle ragioni dell'altro, fino ad una edificante immagine finale in cui la speranza si sublima attraverso il dolore e una rinnovata consapevolezza. Va detto che esiste, (oltre alle peripezie di Walter, del maledetto pupazzo, e della moglie Jodie Foster in perenne fibrillazione), anche una sottostoria parallela che vede protagonisti il figlio maggiore di Walter e la sua "fidanzatina". Si tratta di una vicenda vagamente melodrammatica, un pò blanda e non sempre comprensibile, in cui i due giovani straparlano per decine di minuti con un frasario che a tratti sfiora il ridicolo, contaminando ambasce sentimentali alla Moccia con toni epici alla "capitano, mio capitano". Quanto al cast, i due protagonisti primeggiano mettendo in ombra tutti gli altri, compresi i due "fidanzatini" interpretati (in verità con talento notevole) da Anton Yelchin e Jennifer Lawrence. E qui mi spiace ma dissento da tutte le recensioni che ho finora avuto modo di leggere. La totalità dei critici ha plaudito con entusiasmo al talento sorprendente di un Mel Gibson che molti definiscono "rinato a nuova vita". Io la penso al contrario, e cioè che Gibson appare del tutto fuori ruolo, offrendo un'adesione al personaggio che trovo forzata ed innaturale. E se proprio devo dirla tutta, azzardo una previsione: il buon Mel, appena ne avrà l'occasione, riapproderà ai consueti revenge movies in cui potrà finalmente tornare a gigioneggiare da par suo. Non nascondo, anche perchè si sarà già capito, che Gibson mi ispira da sempre una certa antipatia. Questo alcolista cronico, con accessi di razzismo, cattolico integralista e ultraconservatore, con un esercito di figli, e talmente rispettoso delle donne da aver spaccato qualche dente alla seconda moglie a suon di pugni, non mi è mai parso un mostro di sensibilità. Se assegnerò al film una valutazione finale di sufficienza sarà solo per il rispetto che porto a Jodie Foster. E sono disposto anche a perdonarle di essersi imbarcata in una sciocchezza di tale portata, se penso alla credibilità maturata da questa donna nella sua ormai lunga carriera. E mi riferisco al suo talento d'attrice e regista ma anche alla consapevolezza sociale alla base di certe sue scelte, tipo l'attivismo nel movimento gay. Tirando le somme, possiamo dire che il film è in pratica l'innesto tra due elementi. La base di questa operazione, lo sfondo, non è affatto male, ed è quello comune a tante pellicole indipendenti che sfilano al Sundance, cioè una famiglia americana in crisi, al cui interno si dibattono piccole e grandi storie di sentimenti che evidenziano debolezze e fragilità dei protagonisti, solitudine e bisogno d'amore, le solite cose (minimali e non). Fin qui tutto bene. Il problema però arriva dopo i primi dieci minuti, e cioè con l'inconcepibile idea di affidare il destino di un uomo spento e deluso ad un fottutissimo (e bruttissimo) pupazzo di castoro. Volevo anche sottolineare una delle poche cose davvero positive del film: una colonna sonora insinuante e piena di fascino, basata su un seducente ricorso al suono del bandoneon. E vorrei concludere riportando una percezione del tutto personale. Io ritengo che questa pellicola sia soprattutto una cosa: deprimente. Ed è quantomeno curioso per un film che ci parla di un uomo che vuole sconfiggere la depressione.
Voto: 6
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