Regia di John Cameron Mitchell vedi scheda film
Rabbit Hole è un film profondamente femminile, non solo perchè segna il ritorno di una straordinaria Nicole Kidman e di una sussurrata Dianne Wiest, ma anche perchè in questa singolare terra sospesa ed immobile, anche gli uomini (come il bravo Aaron Eckhart) sembrano lasciarsi alle spalle la loro parte maschile, per abbandonarsi all’emozione e alle lacrime. Rabbit Hole è anche un film a rovescio, almeno secondo gli stereotipi, in cui le donne si comportano da uomini, razionalmente determinate ad andare avanti, forti di un’incrollabile certezza e di un’insondabile solidità, mentre gli uomini si comportano da donne, reiterando il lutto all’infinito, impossibilitati a reagire e troppo impegnati a crogiolandosi nel dolore della perdita. Ma Rabbit Hole è soprattutto un film che parla di un padre e di una madre, di un marito e di una moglie, di un uomo e di una donna. Due caratteri, due protagonisti, separati, divisi, distanti, incapaci di abbracciarsi, pur sfiorandosi, toccandosi, sussurrandosi parole di vacuo conforto, di desolato amore. Intrappolati in una realtà sbagliata e alla ricerca di una via d’uscita, di una risposta o più semplicemente di una ragione plausibile per continuare a vivere. Il marito e la moglie, l’uomo e la donna, la famiglia che fu, trovano nuove regole, inventano codici di comportamento e costruiscono complesse architetture di banale quotidianità, che permettano loro di restare uniti, almeno per un giorno ancora. Il dolore è un buco nero, che nulla pùò chiudere o sanare, tantomeno l’amore o la pallida imitazione di esso. Il dolore è un buco nero, che inghiotte tutto e tutti, trascinando con se le vite che sfiora, le anime di coloro che restano, risparmiati, esanimi, esausti, inermi, svuotati. Il dolore è un buco nero, in cui a volte, perdersi, ritrovarsi e cullarsi, può essere l’unica cosa che rimane, impegnati a reitarare l’ombra di un’esistenza che ormai non ci appartiene più. E alla fine restano solo le lacrime.
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