Regia di John Cameron Mitchell vedi scheda film
Parlare di “Rabbit Hole” per me risulta molto difficile, ho visto il film già da qualche giorno, ho cercato di scriverne senza riuscirci.
“Rabbit Hole” è un film, tratto dalla pièce teatrale di David Lindsay-Abaire, che ha partecipato anche alla sceneggiatura del film, e si vede.
Si vede perché tutto il film respira l'aria del palcoscenico, e lo studio e la “creazione” dei protagonisti è talmente accurata e profonda, come solo i personaggi che nascono e muoiono tutte le sere su un palcoscenico riescono ad esserlo.
Rebecca e Howie sono due giovani genitori, che hanno perso il loro figlio di soli 4 anni, investito da una macchina, guidata da un giovane studente, Jason.
Quanto si può soffrire? e gli altri come si aspettano che si debba soffrire? Sembra che ci debba essere una tabella delle sofferenze: per la perdita di un figlio il massimo, per un divorzio tot, per la perdita del lavoro tot., per il tradimento di un amico tot....e la tabella deve essere rispettata altrimenti non si viene compresi, né consolati.
Rebecca e Howie sembrano osservare questa tabella, a loro è capitato il punteggio più alto, quindi il lavoro da fare è il più difficile: reagire davanti ai vicini con decoro e riservata gentilezza cercando di accettare i cortesi inviti per le cene, andare ai gruppi di auto-aiuto, anche per anni e anni, condividendo anche tesi assurde di figli morti divenuti angeli custodi, ascoltare gli sfoghi di amici e parenti che pretendono di essere più capiti nei rispettivi dolori, proprio perché loro stanno vivendo quello più grosso.
Rebecca non accetta di osservare nessuna di queste regole, e trova il suo rifugio, o meglio, lo cerca dove nessuno lo avrebbe mai cercato...proprio come succede a chi vuole un vero rifugio: nascosto e segreto.
Ritrova Jason, il ragazzo che aveva investito il figlio, e invece di provare per lui rabbia e rancore, vi trova una comprensione e una intesa insperata, perché anche Jason sta soffrendo silenziosamente e insieme costruiscono uno strano legame fatto di brevi incontri nel parco, piccole confidenze, e la condivisione di un fumetto disegnato da Jason che parla proprio di universi paralleli, dove un'esistenza può essere vissuta in più modi, e osservata da lontano.
Come ho detto all'inizio, non riesco a parlare del film, come si dovrebbe in un'opinione...perché il mio pensiero va costantemente sempre e solo alla figura di Rebecca, alla sua superficiale freddezza, incompresa, che nasconde un dolore lacerante, che pare non lasciarla mai.
Non vuole più fare all'amore con il marito, che continua ad amare, non vuole più vivere nella loro bella casa, non vuole più il cane che involontariamente è stata la causa dell'incidente mortale. Non vuole più intorno i vestiti, le foto, i giochi del figlio, continua imperterrita a sfornare dolci e a piantare fiori...apparendo fredda e insensibile, poco reattiva. In verità Rebecca non vuole dimenticare il figlio, lui è il pensiero costante della sua mente, ma sta cercando il suo rifugio, in un universo parallelo, dove forse una sua “altra lei” sta vivendo la sua vita in modo differente ed è più felice.
Rebecca e Howie cercheranno di trovare una soluzione alla propria sofferenza prima insieme, poi con l'aiuto di amici e conoscenti, poi da soli...Solo dopo aver affrontato queste tre fasi giungeranno alla conclusione che non c'è soluzione ad un dolore così, ma solo una lunga sequenza fatta di tanti “poi” (uno dei monologhi finali di Howie, di una bellezza stravolgente che mi ha fatto arrivare a copiose lacrime).
Il rifugio sta proprio nel cercare di trovare una ragione per ogni “poi” successivo, sapendo che da qualche altra parte, una parte di noi magari è felice.
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