Regia di John Cameron Mitchell vedi scheda film
Le vite parallele. Quelle di Orfero ed Euridice. Becca e Howie. Come panni in lavatrice, aggrovigliati, strapazzati e strozzati dal dolore, vivono la perdita. Tra colpa e conforto, ma soprattutto l’evitamento. Becca e Howie sopravvivono alla morte del figlio di quattro anni. Affrontano l’elaborazione del lutto in modo diverso, anche rispetto a chi gli è famigliare nel dolore. Si tratta di sensibilità e situazioni diverse, che passano fra la vita e la morte: la sorella di Becca annuncia di essere incinta.
Tratto dall'omonima piece di David Lindsay-Abaire, questo bellissimo film di John Cameron Mitchell, che ha frequentato il palcoscenico prima del cinema (Hedwig era un musical off Broadway), insieme allo stesso drammaturgo americano, David Lindsay-Abaire, qui sceneggiatore della sua stessa piece, premio Pulitzer nel 2007, va oltre il morettiano La stanza del figlio (2001).
Non solo, durante gli otto anni che son trascorsi dalla sua morte, non si vede nessuna immagine del piccolo Danny, ma si omettono anche le circostanze. Tutto, invece, ruoterà intorno ad un personaggio-fantasma, che letteralmente si muoverà tra Becca e Howie. Assecondando il vuoto di lei, soprattutto. Ed intorno alla coppia una serie di parallelismi: se la sorella vive l’attesa, anche la madre di Becca sopravvive alla perdita del figlio. E’ come se a caratterizzare i personaggi fosse soprattutto il tratto genealogico, che si ripete negli anni. E’ questo anche uno dei tanti elementi letterari nel film: la maledizione tra generazioni. Poi, possono esserci anche i gruppi di ascolto, come quelli a cui partecipano Becca e Howie, ma la difficile scelta se “vivere nella morte” secondo il “piano di Dio”, o ricordare/dimenticare addossandosi la colpa e ricercando il conforto, è un dato di fatto più concreto, da cui non se ne escono facilmente i due orfani di figlio. Infatti, è una storia dove non c’è inizio né fine, ma uno stato di amara sospensione in progress.
Allo stile intimista di Mitchell, ci si aggiunge il direttore della fotografia, G. DeMarco, che fomenta l’immobilità apparente, prediligendo i cromatismi scuri per gli interni, contrapposti alle diverse sfumature del verde degli esterni, alla luce delle strade del quartiere, una sorta di stimolo al riaffacciarsi della vita. Il resto, poi, lo fanno gli attori, a partire dalla magnetica Nicole Kidman, meritatamente candidata all’Oscar, alle prese con un ruolo drammatico che ha voluto fortemente, tanto da essere anche la produttrice del film. Non da meno è l’eccezionale bravura di Aaron Eckhart.
Si aggiunga la colonna sonora di Anton Sanko, dalle armonie tipicamente sigurosiane, per comprendere che siamo di fronte ad un ottimo film. E se all’uscita della sala, a tenere compagnia lo spettatore, per lungo tempo, è il buco allo stomaco, ciò riguarda il dopo, sul quale anche i due protagonisti del film si interrogano e per il quale l’unica risposta utile è “Dopo qualcosa faremo”.
Giancarlo Visitilli
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