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Rabbit Hole

Regia di John Cameron Mitchell vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Rabbit Hole

di Spaggy
8 stelle

È possibile superare la morte di qualcuno caro rifugiandosi nell’idea di un universo parallelo nel quale vive la proiezione più felice di noi stessi? È possibile pensare che esista un mondo fantascientifico in cui chi muore è destinato a continuare a vivere? È possibile che esista un varco tra il mondo reale e gli universi paralleli e che gli esseri umani possano accedervi, come in una sorta di buco del coniglio di carrolliana memoria?
 


Se il mondo di Alice era totalmente fantastico e onirico con elementi allegorici richiamanti le caduche paure terrene, l’universo parallelo immaginato da Jason, giovane adolescente del film, è caratterizzato da speranza e superamento della dolorosa esperienza terrena, è un mondo di ricongiungimento tra vita e morte, tra il ridimensionamento della sofferenza e l’ampliarsi di una fede non religiosa: non si tratta né di un Paradiso né di un Inferno. È solo un altro mondo possibile, un’altra dimensione, lontana da quella già mostrata da Jackson in “Amabili resti”.
 


Il buco del coniglio di Jason cambierà irreversibilmente il destino di (Re)Becca. Ma chi sono Jason e Becca? Come possono convivere nello stesso mondo affettivo e illusorio colui che è stato causa involontaria di un atroce dolore e chi quel dolore lo ha subito?
 


Il terzo film di John Cameron Mitchell, adattamento della pièce teatrale del premio Pulitzer David Lindsay-Abaire (sceneggiatore anche della pellicola), fortemente voluto, prodotto e interpretato da Nicole Kidman, rientra nell’ottica dell’esplorazione della sofferenza che il regista stesso aveva già messo in scena nei suoi due precedenti lavori. Fa sorridere chi nell’approcciarsi alla pellicola dimentica che il regista proviene dal mondo dei videoclip e degli spot pubblicitari, un universo in cui si esplorano diversi registri linguistici e tecnici per raccontare e diffondere lo stesso messaggio.


Le tre opere finora prodotte rientrano in quest’ottica e come cerchi intersecanti esplorano lo stesso territorio. In “Hedwig”, opera prima premiata al Sundance, ricorrendo all’uso di colori, disegni, travestitismo  e musica hard rock aveva esplorato l’universo di sofferenza di chi tradito dalla vita doveva inventarsi una nuova identità (anche di genere) destinata a scontrarsi con l’ossessività di una realtà perbenista che tende ad allontanare ed esiliare la diversità relegandola ai margini della società.


In “Shortbus”, invece, il dolore era relegato ad una sfera intima, inerente al rapporto col proprio corpo e all’uso spregiudicato e immorale che di esso se ne può fare: sesso esplicito e reale (al limite della pornografia), autofellatio, sucidi e orge sono soltanto un mezzo di purificazione ed espiazione dei propri tormenti solitari o di coppia.


Se in “Hedwig” il dolore si trasforma in ricerca di un posto al sole, rivendicando anche i propri diritti d’autore, in “Shortbus” lascia il passo ad un processo di depurazione dell’anima ottenuto attraverso lo “sporcare” fisicamente ciò che è tangibile, il corpo (si potrebbe apportare come esempio l’autofellatio praticata da uno dei protagonisti, che al di là del piacere indotto dalla pratica onanistica serve metaforicamente a rigenerare la propria vita proprio attraverso il liquido seminale).


In “Rabbit Hole”  la macchina da presa del regista elimina tutti gli shock visivi, niente orpelli o momenti forti, si spoglia delle metafore e procede dritto al sodo. Tutto è ridimensionato, si fa luce solo sulla sfera interiore dei protagonisti, sul drammatico percorso con il quale la mente interiorizza ed elabora un dolore forte come il lutto, la perdita di qualcosa, senza stimoli che provengono dall’esterno. Il tema della perdita era presente anche nelle opere precedenti, anche se non sempre si trattava di morte, ma nella pellicola gli stimoli esterni sono soltanto degli ostacoli e non degli input: più il mondo esterno offre spunti per aiutare a superare il dolore e più quest’ultimo si acuisce e si chiude al confronto.
 


Il film si apre quasi dalla fine, entrando in medias res. Tutto è già accaduto, quasi niente ci viene mostrato di ciò che ha portato i protagonisti fino a quel punto. Ci troviamo subito di fronte ad una donna, Becca, intenta a curare maniacalmente il giardino della sua casa, una sorta di Bree Van De Kamp [una delle casalinghe del serial “Desperate Housewives”], che sembra vivere la sua esistenza rifugiandosi in ciò che sa fare meglio, curare la casa, cucinare, vivendo nell’apparenza e rifuggendo ogni contatto esterno con la realtà, con i vicini di casa, con gli amici e persino con il marito, a cui rifiuta ogni approccio sessuale. A casa di Becca il tempo sembra essersi fermato in un preciso istante e di quel momento ci informa indirettamente il marito della donna, Howie, rivedendo sul cellulare un vecchio video con protagonista il loro figlioletto di quattro anni, Danny. Il bimbo è morto 8 mesi prima in un tragico incidente stradale avvenuto nei pressi dell’abitazione.
Becca e Howie vivono con i sensi di colpa per non aver saputo proteggere il loro pargolo, uscito dal cancello di casa lasciato aperto dalla madre per inseguire il cane del padre per la strada e investito da un’auto che procedeva a velocità sostenuta e guidata dal giovane adolescente Jason.
 


I due coniugi vivono la perdita del figlio in maniera differente. Becca sembra voler rimuovere in fretta tutti gli elementi materiali che le ricordano il figlio:  spazza via giocattoli, vestiti, foto e video, non incontra amici che hanno dei figli piccoli, cura eccessivamente il proprio aspetto come se volesse ritornare alla sua vita pre-maternità, vuole vendere la casa in cui vive ed evita di parlare del suo dolore sia con i familiari sia con un gruppo di ascolto. Il suo dolore è qualcosa di molto intimo che appartiene solo a lei e a nessun altro.
 


Un’ottica diametralmente opposta è quella che caratterizza invece Howie: l’uomo ama crogiolarsi nel dolore rivedendo i vecchi video, cerca di tener vivo il ricordo del bambino parlandone con gli amici e con il gruppo di ascolto, prova a convincere la moglie a non eliminare le tracce del figlio e accarezza l’idea della possibilità di poter avere un altro erede.
 


Questa ripartizione delle psicologie dei personaggi si protrae fino a quando intervengono almeno tre differenti circostanze di rottura: la gravidanza della sorella di Becca, l’incontro e l’amicizia tra Becca e il giovane investitore, Jason, e la cancellazione accidentale del video del piccolo Danny sul telefono cellulare di Howie. È grazie a questi tre espedienti di scrittura che assistiamo all’evolversi del dolore di Becca che riesce finalmente ad esternare tutto ciò che prova, subendo delle spinte acceleratrici proprio dalla vicinanza del giovane nemico che le offre la possibile via di fuga dalla realtà: il giovane Jason per esorcizzare il dolore provocato dalla morte del padre ha creato un fumetto nel quale attraverso il succitato buco del coniglio si accede ad infiniti universi paralleli. Per Becca, donna alquanto cinica (basti pensare ad una delle battute più fulminanti pronunciate dalla donna: “Dio è uno st***zo, se voleva un altro angelo poteva farselo da sé”), il riscatto poteva venire solo dalla scienza, naturale o fantastica che sia: se gli universi sono infiniti, allora infiniti sono anche gli essere umani e ci sarà da qualche parte una Becca che non soffre e che è felice con il suo figlioletto.




Un altro stimolo, non meno importante, è dato dalla famiglia di Becca e in particolare dalla madre. Becca ha continui scontri con la donna con cui condivide il lutto per la perdita di un figlio ma l’esperienza comune tende ad allontanare maggiormente le due donne. È come se il dolore di Becca fosse esclusivo perché per lei non è possibile paragonare la morte accidentale del suo bimbo di 4 anni con quella del fratello Arthur, 39enne ucciso da un’overdose. Danny è morto per via del destino che ha prevalso, senza possibilità di scelta, mentre Arthur si è cercato il suo destino. Ma è dalla pacatezza, dall’ironia e dalla bevuta facile della madre che Becca imparerà una delle lezioni che l’aiuteranno a superare il suo scoglio emotivo: “il dolore non si placa mai ma si trasforma… e questa trasformazione è come un bene prezioso: il dolore portato appresso diventa bello perché è come portarsi addosso il figlio stesso”.
 


Nonostante la buona prova di Aaron Eckhart nei panni del marito Howie, credibile anche nei punti mediocri dello script (come ad esempio l’evolversi della sua non-relazione con Gaby, donna incontrata alle sedute di gruppo che continua a frequentare anche dopo l’astensione della moglie), il film sembra essere imperniato solo su Nicole Kidman, che nei panni di Becca torna allo splendore recitativo del passato, ai tempi in cui il suo nome era capace di irradiare pellicole come “The Others”, “The Hours” e “Il matrimonio di mia sorella”.




Grazie ad una regia secca e asciutta e ad un copione solido senza pretese pedestri, l’attrice riesce a fornire un’interpretazione eccezionale, giocata su sguardi, gesti e toni di voce. I movimenti della macchina da presa seguono ogni suo cenno, scrutano ogni rotearsi dei suoi occhi, interrogano ogni vena del suo collo, alla ricerca di quell’indiscreto particolare che mostri il cedimento della sua apparente e lucida freddezza. In un crescendo teatrale (ma mai manieristico) si arriva all’esplosione di rabbia, di dolore e di sofferenza/insofferenza delle due scene madri: la violenta lite con Howie dopo aver cancellato per errore e senza accorgersene il video del figlio, in cui per la prima volta vediamo crollare emotivamente la donna in uno sfogo drammatico su ciò che è stato e che invece poteva essere, sui sensi di colpa e sui modi differenti di affrontare il trauma; e il lungo pianto liberatorio, da sola in auto, dopo aver realizzato che nessuno è colpevole di ciò che è accaduto al figlio e aver capito che il dolore non va trattenuto ma condiviso per non incrinare maggiormente ciò che è rimasto e senza chiedersi su cosa ci sarà dopo.
 


Da segnalare anche l’ottima prova offerta da Dianne Wiest nel ruolo di Nat, la madre di Becca, caratterizzata da un’estrema semplicità interpretativa e da un rapporto simbiotico con la Kidman nelle scene a due: laddove la Kidman aggiunge, la Wiest sottrae e viceversa, offrendo dei duetti memorabili sia sul piano del contenuto che della forma.
 


Un ulteriore merito va anche alla scelta di un finale aperto e non necessariamente chiarificatore. Non ci è dato sapere cosa riserverà la vita a Becca e Howie, sappiamo solo che lentamente hanno ricominciato a vivere riunendo ad un barbecue tutti i loro affetti più cari, condividendo con loro sia il dolore della perdita che l’inizio della trasformazione… “E poi – come recita l’ultima battuta di Howie – non lo so… qualcosa accadrà”. 

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