Regia di Peter Weir vedi scheda film
Nei suoi momenti più grandi, The Way Back è grande più dello schermo, quanto la vita: grande come i paesaggi sterminati che pochi registi sanno filmare, ma come certamente Peter Weir ha sempre saputo fare. Dalle steppe gelate della Siberia, dove sono confinati i prigionieri ostili al regime comunista, in fuga dal gulag, al deserto fatale della Mongolia, verso l’Himalaya e la libertà che sta dietro le montagne, nell’India degli inglesi, ogni squarcio di natura invade i confini dell’inquadratura e sovrasta lo sguardo. Ricollocando così al loro posto gli uomini: piccolissimi, uno sparuto squadrone di fuggiaschi dalle nazionalità (mal)assortite, che affrontano il gelo e l’arsura, le zanzare e i miraggi, la fame ancestrale e la fatica, figurine stagliate contro un cielo e un destino immensamente più grande di loro. Come Jim Carrey alla fine di The Truman Show, deciso a uscire dalla botola di una volta di cemento dipinto di celeste: il cinema di Weir è, da sempre, un inno ostinato al libero arbitrio, esercitato con umana pervicacia contro le forze ostili della natura o del potere, da Mosquito Coast a Master & Commander. Sfida ai confini del mare, da L’attimo fuggente a, appunto, The Truman Show. Nobile nelle intenzioni, l’opera soffre però di una tangibile mancanza di genuinità: Weir cerca il realismo nelle piaghe e nelle labbra spaccate dei suoi protagonisti, ma è nella sceneggiatura (e nelle memorie di Slavomir Rawicz che stanno alla sua origine, memorie tra l’altro non del tutto vissute in prima persona) e nella caratterizzazione dei personaggi che manca un cuore pulsante. Troppo hollywoodiani nelle dinamiche e forzatamente complementari, dall’ardimentoso giovane polacco che guida la fuga (Jim Sturgess, volenteroso e coraggiosamente fuori parte) al misterioso americano che si fa chiamare solo Mr. Smith (Ed Harris, vecchia conoscenza del regista, sempre efficace e granitico), dalla fatina bionda Saoirse Ronan, unica donna del gruppo e portatrice di serenità e coesione, al truce russo Colin Farrell che alla Madre Russia non riesce a rinunciare (anche lui, gustosamente improbabile ma adeguatamente sopra le righe). Lungo la strada non si perde il fascino dell’avventura, ma viene meno l’amore per i personaggi, fino a un finale (vogliamo credere imposto dalla produzione) posticcio e fuori luogo.
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