Regia di Peter Weir vedi scheda film
Peter Weir, regista australiano di lungo corso e con pellicole di grande slancio immaginifico ed emozionale, a sette anni dal suo ultimo lavoro (“Master and Commander: The Far Side of the World”), ci offre una storia (da un fatto vero) dove la fuga è il contraltare dell’inseguimento della natura sull’uomo. Un filo conduttore continuo e mai interrotto, un lungo corridoio di sguardi e di finestre sul mondo dove ogni balcone ci persuade del bello e dell’indefinibile in simbiosi con le schiumose mostruosità e le trappole vitali. La natura scandisce e rigurgita ogni fotogramma del suo cinema con metafore visive e scritture fagocitanti tutto mentre l’uomo vuole a tutti i costi indagare (“Picnic ad Hanging Rock”), interagire (“Gallipoli”), nascondersi (“The Last Wave”), superarsi (“Master and Commander…”) e, non per ultimo, estraniarsi e fingere (“L’attimo fuggente” e “The Truman Show “). “The way back” è la prova inconfutabile della veridicità dell’immaginario di Weir: qualsiasi racconto deve partire da un assunto concreto (anche se deriva da antefatti leggendari o da passaparola) e da avvenimenti che possono aver segnato la storia (quella minima e imperscrutabile di Weir si ciba per rendere il rapporto ambiente-uomo silente e forte, stupito e angosciante). Pellicola di genere personale che diventa genere maestro per chi soggiace al destino e si perpetua nelle grinfie, ora dolci e ora dolenti, di un paesaggio dorato e ostile. Film dedicato a chi è riuscito a fare un ‘lunga marcia’ oltre il fino spinato fino all’arrivo dell’agognata libertà quella di un confine tolto dall’immaginario di stilistiche ovvietà e di orizzonti allineati; l’inquadratura non è mai da incorniciare e giammai un pretesto per un mero documentario di siti e di avamposti dimenticati e soggiogati dalla macchina da presa. E sì che la fotografia e il colore ricoprono in un velo sapiente lo scorrere lieve e addensato di ogni fotogramma e l’ostilità ‘naturae’ nasconde un’agognata speranza (‘è un miraggio’) e una dolce rinfresco (‘acqua, acqua…!’) come sempre il nemico, l’uomo che non conosci, ridà vita e leggerezza ad un cammino impossibile e ad un arrivo mai visto.
Il 19 novembre 1939 il tenente Janusz (Jim Sturgess) dell’esercito polacco viene arrestato a Pinsk; viene denunciato come spia dalla moglie (una tortura è una confessione) e condannato ad anni di lavori forzati in un gulag siberiano (l’anno dopo). La sua permanenza in un simile posto (sperduto in tutti i sensi) non gli fa veni re meno il pensare ad una fuga che sembra impossibile. Insieme a dei carcerati l’dea si realizza in un modo disperato e insperato (siamo nel 1941): i suoi ‘amici’ Khabarov (Mark Strong), Mr. Smith (Ed Harris) e Valka (Colin Farrell) sono quelli più ostinati nella loro ‘follia’ (la fuga dal gulag diventa un filo spinato reciso e nessun compiacimento ad un film di genere). Il gruppo deve arrivare al lago Baikal (una prima meta), poi la ferrovia transiberiana e la Mongolia (e il deserto del Gobi) per arrivare, dopo il Tibet, in India. Una ‘lunga marcia’ di oltre seimila chilometri quando il destino porta il gruppo (a cui si era aggiunta Irena –Saoirse Ronan-, prima forzatamente e poi benvoluta) alla libertà (sono rimasti in quattro). E il saluto ai compagni di fuga morti viene sempre ‘assorbito’ con una frase di consolazione umana: “almeno è morto libero”. “Il passaporto?”, “ Non l’abbiamo”, “Venite…Benvenuti in India” che diventa il paradiso in terra per chi non aveva mai visto il sollievo del bello.
Il film è tratto dal libro di Slavomir Rawicz “The Long Walk” (La lunga marcia è scritto nei titoli di coda ma ripubblicato nel 2011 col titolo italiano ‘Tra noi e la libertà’): l’autore è stato ufficiale dell’esercito polacco prima dell’arresto dai russi per spionaggio (il libro uscì nel 1956). La sceneggiatura è dello stesso regista.
Si deve dire che la peculiarità principe di Peter Weir è di rappresentare il vero (non certa un destino finto e volutamente ‘pompato’) e di alimentare nello spettatore la curiosità dei vivi che non demordono e della libertà come sogno sentito e non inerme. La natura compiace il regista nel disincanto totale delle immagini dove il filtro è solo dei luoghi (molti ambienti sono stati girati in altri paesi dell’est europeo) e nell’avvolgente rispetto che di essa si deve avere (quando tutto sembra sollievo e quando tutto sembra fatica). Il set non è porsi contro l’inferno da attraversare ma è addomesticare (per quanto possibile) il senso di battaglia dell’uomo anzi lasciare la spada per ‘accumulare’ forzatamente la tempesta e andare oltre per un destino (da conquistare). Libertà e vita, avversione e morte: nel cinema vero del regista australiano gli opposti paiono toccarsi e interagire in un mondo sperduto, lontano e senza vera luce. Sembra che il circolo (‘vizioso’) del film come rappresentazione sia in Weir una fuga che ritorna: dal falso che diventa vero (“Picnic ad Hanging Rock”), al vero che è finto (“The Truman Show”) fino al vero che vuole la verità (“Gallipoli”, “Master and Commander…” fino a quest’ultima pellicola). Il cinema ha delle scappatoie più o meno finte ma il reale (o di quello che di esso si può raccontare) è pur sempre una buona idea e ciò che se ne estranea è solamente un gioco per togliersi il peso di una metafora troppo pesante (il destino si chiude e si schiude a suo piacimento). In un susseguirsi di paesaggi, avversità, disastri, saturazioni ed orizzonti, il set pare un accumulo di vuoti atti a riempirsi non una somma giacente e piacente (allo spettatore). Una ripresa in stile sempre ad altezza uomo-natura mai a domare il duo e a soverchiare il reale col finto. Una fuga dagli eventi, una fuga con gli eventi, una fuga dal set (Truman) e una lunga fuga (Janusz).
Il cast dà una prova di carattere e di immersione nei personaggi: un bravo Colin Farrell riesce a appropriarsi dei panni di un criminale, un grande Ed Harris che dà al personaggio di Mr. Smith vigore e giusta stranezza e tutti riescono a dare una valenza veritiera e convincente (nei nomi di Janusz e Irena). La fotografia di Russell Boyd non diventa mai un effetto turistico e sdolcinato ma ci consegna un pieno di colori scambiali con gli umori (e gli umorali) della natura ben riposta e nascosta; le musiche (di Burckhard von Dallwitz) sono carezzevoli al momento giusto e con lunghe pause dove il silenzio è pieno di segni dei luoghi e dei loro segreti. La regia di Peter Weir si insinua e fa sua la vitalità di una natura che sembra a riposo: come sempre la tecnica giacente e rarefatta dell’australiano riesce a coinvolgere e a scandire i tempi delle immagini.
Voto: 7½.
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