Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film
L'attesa per un film di Inarritu, che esce mediamente ogni 3-4 anni, è tanta: e le aspettative raramente vengono deluse. Anche con questo Biutiful, impostato in maniera leggermente diversa dai precedenti lavori (meno di quanto si creda: la mancanza del fidato sceneggiatore Arriaga non pesa più di tanto), il regista messicano sa colpire lo spettatore là dove nessuno sa resistere, e lo fa con le sue solite armi: la (attesa della) morte (21 grammi), l'esperienza quotidiana della tragedia (Babel), la necessità di una redenzione per questo cumulo insensato di peccati, brutture, dolori che comunemente chiamiamo 'vita'. Ecco, questo discorso si è lasciato contagiare dalla visione di Biutiful e va deviando verso la retorica, oppure anche il patetico: e queste sono due delle accuse principali che si possono muovere contro il film. Perchè in effetti la drammatizzazione della sceneggiatura di Inarritu/Giacobone/Bo può apparire a tratti eccessiva, troppo carica di avvenimenti, presenze, dialoghi corposi, esagerata nella sua mole di disgrazie e incidenti, di sofferenze e problemi, senza mai un (almeno) apparente filo di luce. In realtà questo dubbio è legittimo per un semplice motivo: perchè la forma stilistica di Biutiful è ricercata, Inarritu segue spesso da vicino i suoi personaggi con la camera a mano, partecipa al loro dolore con primi piani e dettagli insistiti (basti pensare alle mani della primissima scena); insomma il dubbio di aver oltrepassato il limite patetico consentito si basa su un'idea di quasi compiacimento che il regista potrebbe avere nel raccontare sciagure della storia (basti pensare a quanto semplicemente e freddamente Loach metta in scena drammi sociali e umani gravi quanto quelli di Uxbal, se non addirittura peggiori); ma così effettivamente non è, perchè l'estetica di Inarritu è tutt'altro che un abbellimento, un modo di porgere il film al pubblico in maniera accattivante: le prove di ciò stanno nei precedenti lavori, straziati da un montaggio protagonista e sezionati da trame labirintiche, composte di una moltitudine di personaggi e relative storie. Qui, insomma, Inarritu riesce addirittura a limitarsi, anche se un piccolo giochetto se (ce) lo concede, cioè quello della scena di apertura e di chiusura: ma sostenere che, così costruito, il finale di Biutiful non sia sublime è semplicemente menzogna. La pellicola si apre con una domanda: cosa starà inseguendo Uxbal? La pellicola si chiude senza una risposta: perchè è cambiata la domanda. E quindi veniamo al titolo: ironico? Paradossale? Assolutamente no: nulla di più insensato. Inarritu ci suggerisce piuttosto chiaramente a cosa si riferisca la bellezza del titolo: la parola è infatti legata al disegno fatto dalla figlia del protagonista. E i due bambini sono l'unica maniera che a Uxbal rimane per dimostrare che sa amare, che la sua vita non è stata del tutto inutile. Bolso pachiderma malato, Bardem (più bravo o più gigione?) si trascina per centoquaranta minuti (!), centotrenta se si escludono gli infiniti titoli di coda, attraverso una via crucis intasata dal traffico: si scopre così in (triste) compagnia di tante anime a lui distanti nella vita di tutti i giorni (gli immigrati, ma anche la moglie, così come il fratello), eppure a lui legate da un filo invisibile di dolente rassegnazione. Staccarsi da questo filo nella maniera più dolce possibile sarà la sua missione: ma non esiste nessuna maniera dolce per farlo, così come non esiste nessuna risposta alla domanda che il film ci pone all'inizio. 6,5/10.
Uxbal, sulla quarantina, ha due figli piccoli che ama più di ogni altra cosa al mondo, una moglie intrattabile con cui riesce solo a litigare, un fratello troppo distante da lui, con cui ha un rapporto superficiale, e un lavoro che detesta, poichè ha un giro di commercio che lucra sugli immigrati cinesi e africani. Ora sa che dovrà mettere a posto tutte queste cose, e farlo anche in fretta: perchè il cancro lo sta divorando.
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