Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film
La trama trae origine dall’epica greca ed è abbastanza semplice.
Giasone parte con gli argonauti alla ricerca del Vello d’oro (una miracolosa pelliccia di montone) e arriva nella Colchide, una selvaggia regione caucasica (le sceme sono girate nell’attuale Georgia). Medea, la sacerdotessa e maga custode del Vello, figlia del re della Colchide, si innamora del greco, tradisce il suo compito, la sua religione, il suo popolo e perfino la sua famiglia (uccidendo il fratello), consegna il Vello d’oro a Giasone e fugge con lui.
Dopo varie traversie i due amanti si stabiliscono a Corinto. Trascorre qualche anno. Giasone trascura un po’ Medea che nel frattempo gli ha dato due figli e si invaghisce della giovane Glauce, figlia di Creonte, re di Corinto. Ed è disposto a ripudiare Medea per sposare la figli del re.
Medea però, dopo un periodo di rassegnazione, ritrova il suo orgoglio, recupera la ferocia primitiva delle sue origini, riesuma la antica potenza di maga e riacquista l’energia malefica perduta per attuare la vendetta: prima elimina la rivale regalandole un abito stregato che la spinge alla morte, poi uccide i propri figli per privare Giasone della discendenza.
Fra i miti dell’antica Grecia, quello di Medea è il più conosciuto, il più raccontato, il più riproposto; forse perché narra di una madre che, pur amandoli teneramente, uccide i figli per vendicarsi terribilmente del tradimento del suo uomo.
Nel 1969 Pier Paolo Pasolini, due anni dopo essersi confrontato con una tragedia di Sofocle (in Edipo Re), rilegge Euripide cercandovi agganci per una sua ossessione (una specie di fissazione antropologica, culturale, politica) che lo porta in ogni occasione, in ogni intervista, in ogni opera a contrapporre il mito e la storia (mythos e logos), il vecchio e il nuovo, la natura e la cultura, l’emozione e la ragione, il pathos e la logica, il mondo antico (orientale, primitivo, epico, misterioso, genuino e ieratico) a quello moderno (razionale e pragmatico, artificioso, omologato).
Questa fisima nel cercare antitesi radicali fra i “tempora acta” e la degenerazione presente, nel film trova tre momenti di esplicitazione evidentissimi.
Il primo è nella rappresentazione del centauro Chirone, il maestro: nella prima parte del film, quando Giasone è bambino, il centauro è un centauro - figura mitologica, favolosa, sacra, mezzo cavallo e mezzo uomo - che esprime in toni poetici la sua concezione della natura; nella seconda parte del film invece, quando Giasone è adulto, Chirone si presenta sdoppiato e in qualche modo “dissacrato”: accanto al centauro appare nelle vesti di un raffinato intellettuale di Corinto, un bipede come tanti, evoluto demagogo che disquisisce con disincanto sulla sua visione del mondo. E ammette consapevolmente che “solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico”.
Il secondo riferimento antinomico è in un altra trasformazione: quella di Giasone stesso, che da bambino docile al maestro, attento alla natura e sensibile alla poesia, si involve in ambizioso pretendente al trono, guerriero falso, cinico calcolatore, marito fedifrago,
Il terzo momento di confronto-scontro fra un universo permeato di sacralità antica e uno degradante verso una artificiosità consumistica che porta all’omologazione fatta di relazioni false, tradimenti ipocriti e incomprensioni è proprio imperniato attorno alla figura della protagonista Medea, che nel suo regno primitivo era una maga temutissima, capace di ogni brutalità; e a Corinto subisce una metamorfosi diventando una moglie delusa, tragicamente rassegnata, insoddisfatta, sola con le sue fedeli ancelle, ripiegata nei doveri di madre e nelle sofferenze di donna tradita. Salvo poi trovare la sua primitiva energia per compiere la terribile vendetta e morire.
Ma anche le location scelte da Pasolini contribuiscono a sottolineare questa dicotomia, queste separazioni: i luoghi dell’educazione di Giasone sono placide lagune luminose dove la natura prevale armoniosa; quelli di Medea sono i bianchi calanchi dell’arida Cappadocia traforati da mille grotte; quelli dell’epilogo tragico sono i marmi abbacinanti della armoniosa Piazza dei Miracoli a Pisa.
Perfino la scelta della Callas come protagonista ribadisce questo concetto. Pasolini dichiara di aver fortemente voluto la viziatissima cantante lirica perché. appartenente “a un mondo contadino, greco, agrario, e poi educata per una civiltà borghese” che ha snaturato la schiettezza originaria: personificazione delle contraddizioni, del conflitto fra culture e - proprio come Medea - esule per amore, eterna sradicata e disadattata.
Chi conosce anche solo superficialmente Pasolini, sa che l’inquieto poeta di Casarsa era ossessionato alla ricerca di genuinità primitive e di autenticità: nell’uso del dialetto friulano per esprimere con maggior immediatezza i sentimenti; nella ricerca di un pauperismo originario e di un primitivismo autenticamente sacro nei vangeli; nella sua predilezione per il sottoproletariato non ancora contaminato dall’inurbamento e dal boom; nell’amore per la spontaneità brutale dei ragazzi di vita delle borgate; nella schiettezza delle relazioni sessuali; nella nostalgia per i costumi liberi descritti nella trilogia della vita (Decameron, Canterbury, Mille e una notte).
Il progresso, per Pasolini, ha prodotto involuzione, in ogni epoca; l’adesione alla civiltà industriale porta sempre con sé snaturamento e massificazione; il frenetico inurbamento ha distrutto l’identità (contadina) e si è rivelato un genocidio culturale; la laicità fredda ha annientato il fervore del sacro.
E nello scontro fra i poliziotti figli di cafoni e i fighetti figli di borghesi che contestano avendo il cuore a sinistra e il portafogli a destra, Pasolini sa con chi schierarsi.
Anche Medea ha affrontato un processo di degenerazione quando ha scelto di abbandonare la primitiva Colchide (coi suoi i riti di ancestrali, le maschere barbariche, i sacrifici cruenti, i balli orgiastici) e si è immiserita per abbracciare le liturgie ordinate, le mitologie codificate, le compostezze olimpica della civiltà.
Alla fine, per recuperare è costretta a ritornare, a operare inversioni brusche e strappi atroci, a farsi violenza, a ritrovare il furore preculturale della sua patria selvaggia; deve sottoporsi a una metamorfosi inversa, a “riconsacrarsi”. E non potrà fa altro - in una impennata di orgoglio da femmina, regina, sacerdotessa e maga - che scatenare la sua furia, trucidare, distruggere, bruciare, morire. Ritrovando solo in questo modo la sua identità negata (“Sono un vaso pieno di un sapere non mio”).
Perfino il vecchio Creonte è confusamente consapevole di questo quando, sia pur con sofferenza, ordina a Medea di allontanarsi da Corinto per la sua “diversità di barbara”.
Aldilà delle complesse metafore, non sempre da tutti comprensibili, il film è comunque spettacolare per le inquadrature dense nei primi piani, il clima mitologico che lo pervade e ci pervade, gli incanti da fiaba, i paesaggi suggestivi, i costumi meravigliosi (del grande Piero Tosi), le musiche seducenti.
La trama trae origine dall’epica greca ed è abbastanza semplice.
Giasone parte con gli argonauti alla ricerca del Vello d’oro (una miracolosa pelliccia di montone) e arriva nella Colchide, una selvaggia regione caucasica (le sceme sono girate nell’attuale Georgia). Medea, la sacerdotessa e maga custode del Vello, figlia del re della Colchide, si innamora del greco, tradisce il suo compito, la sua religione, il suo popolo e perfino la sua famiglia (uccidendo il fratello), consegna il Vello d’oro a Giasone e fugge con lui.
Dopo varie traversie i due amanti si stabiliscono a Corinto. Trascorre qualche anno. Giasone trascura un po’ Medea che nel frattempo gli ha dato due figli e si invaghisce della giovane Glauce, figlia di Creonte, re di Corinto. Ed è disposto a ripudiare Medea per sposare la figli del re.
Medea però, dopo un periodo di rassegnazione, ritrova il suo orgoglio, recupera la ferocia primitiva delle sue origini, riesuma la antica potenza di maga e riacquista l’energia malefica perduta per attuare la vendetta: prima elimina la rivale regalandole un abito stregato che la spinge alla morte, poi uccide i propri figli per privare Giasone della discendenza.
Fra i miti dell’antica Grecia, quello di Medea è il più conosciuto, il più raccontato, il più riproposto; forse perché narra di una madre che, pur amandoli teneramente, uccide i figli per vendicarsi terribilmente del tradimento del suo uomo.
Nel 1969 Pier Paolo Pasolini, due anni dopo essersi confrontato con una tragedia di Sofocle (in Edipo Re), rilegge Euripide cercandovi agganci per una sua ossessione (una specie di fissazione antropologica, culturale, politica) che lo porta in ogni occasione, in ogni intervista, in ogni opera a contrapporre il mito e la storia (mythos e logos), il vecchio e il nuovo, la natura e la cultura, l’emozione e la ragione, il pathos e la logica, il mondo antico (orientale, primitivo, epico, misterioso, genuino e ieratico) a quello moderno (razionale e pragmatico, artificioso, omologato).
Questa fisima nel cercare antitesi radicali fra i “tempora acta” e la degenerazione presente, nel film trova tre momenti di esplicitazione evidentissimi.
Il primo è nella rappresentazione del centauro Chirone, il maestro: nella prima parte del film, quando Giasone è bambino, il centauro è un centauro - figura mitologica, favolosa, sacra, mezzo cavallo e mezzo uomo - che esprime in toni poetici la sua concezione della natura; nella seconda parte del film invece, quando Giasone è adulto, Chirone si presenta sdoppiato e in qualche modo “dissacrato”: accanto al centauro appare nelle vesti di un raffinato intellettuale di Corinto, un bipede come tanti, evoluto demagogo che disquisisce con disincanto sulla sua visione del mondo. E ammette consapevolmente che “solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico”.
Il secondo riferimento antinomico è in un altra trasformazione: quella di Giasone stesso, che da bambino docile al maestro, attento alla natura e sensibile alla poesia, si involve in ambizioso pretendente al trono, guerriero falso, cinico calcolatore, marito fedifrago,
Il terzo momento di confronto-scontro fra un universo permeato di sacralità antica e uno degradante verso una artificiosità consumistica che porta all’omologazione fatta di relazioni false, tradimenti ipocriti e incomprensioni è proprio imperniato attorno alla figura della protagonista Medea, che nel suo regno primitivo era una maga temutissima, capace di ogni brutalità; e a Corinto subisce una metamorfosi diventando una moglie delusa, tragicamente rassegnata, insoddisfatta, sola con le sue fedeli ancelle, ripiegata nei doveri di madre e nelle sofferenze di donna tradita. Salvo poi trovare la sua primitiva energia per compiere la terribile vendetta e morire.
Ma anche le location scelte da Pasolini contribuiscono a sottolineare questa dicotomia, queste separazioni: i luoghi dell’educazione di Giasone sono placide lagune luminose dove la natura prevale armoniosa; quelli di Medea sono i bianchi calanchi dell’arida Cappadocia traforati da mille grotte; quelli dell’epilogo tragico sono i marmi abbacinanti della armoniosa Piazza dei Miracoli a Pisa.
Perfino la scelta della Callas come protagonista ribadisce questo concetto. Pasolini dichiara di aver fortemente voluto la viziatissima cantante lirica perché. appartenente “a un mondo contadino, greco, agrario, e poi educata per una civiltà borghese” che ha snaturato la schiettezza originaria: personificazione delle contraddizioni, del conflitto fra culture e - proprio come Medea - esule per amore, eterna sradicata e disadattata.
Chi conosce anche solo superficialmente Pasolini, sa che l’inquieto poeta di Casarsa era ossessionato alla ricerca di genuinità primitive e di autenticità: nell’uso del dialetto friulano per esprimere con maggior immediatezza i sentimenti; nella ricerca di un pauperismo originario e di un primitivismo autenticamente sacro nei vangeli; nella sua predilezione per il sottoproletariato non ancora contaminato dall’inurbamento e dal boom; nell’amore per la spontaneità brutale dei ragazzi di vita delle borgate; nella schiettezza delle relazioni sessuali; nella nostalgia per i costumi liberi descritti nella trilogia della vita (Decameron, Canterbury, Mille e una notte).
Il progresso, per Pasolini, ha prodotto involuzione, in ogni epoca; l’adesione alla civiltà industriale porta sempre con sé snaturamento e massificazione; il frenetico inurbamento ha distrutto l’identità (contadina) e si è rivelato un genocidio culturale; la laicità fredda ha annientato il fervore del sacro.
E nello scontro fra i poliziotti figli di cafoni e i fighetti figli di borghesi che contestano avendo il cuore a sinistra e il portafogli a destra, Pasolini sa con chi schierarsi.
Anche Medea ha affrontato un processo di degenerazione quando ha scelto di abbandonare la primitiva Colchide (coi suoi i riti di ancestrali, le maschere barbariche, i sacrifici cruenti, i balli orgiastici) e si è immiserita per abbracciare le liturgie ordinate, le mitologie codificate, le compostezze olimpica della civiltà.
Alla fine, per recuperare è costretta a ritornare, a operare inversioni brusche e strappi atroci, a farsi violenza, a ritrovare il furore preculturale della sua patria selvaggia; deve sottoporsi a una metamorfosi inversa, a “riconsacrarsi”. E non potrà fa altro - in una impennata di orgoglio da femmina, regina, sacerdotessa e maga - che scatenare la sua furia, trucidare, distruggere, bruciare, morire. Ritrovando solo in questo modo la sua identità negata (“Sono un vaso pieno di un sapere non mio”).
Perfino il vecchio Creonte è confusamente consapevole di questo quando, sia pur con sofferenza, ordina a Medea di allontanarsi da Corinto per la sua “diversità di barbara”.
Aldilà delle complesse metafore, non sempre da tutti comprensibili, il film è comunque spettacolare per le inquadrature dense nei primi piani, il clima mitologico che lo pervade e ci pervade, gli incanti da fiaba, i paesaggi suggestivi, i costumi meravigliosi (del grande Piero Tosi), le musiche seducenti.
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