Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film
Ispirandosi a grandi linee al racconto di Euripide, Pasolini narra la feroce volontà di vendetta di Medea, determinante per lo sviluppo sanguinoso della tragedia.
Il re di Corinto, Creonte (Massimo Girotti), infatti, aveva promesso a Giasone (Giuseppe Gentile) il proprio regno in cambio del matrimonio con Glauce (Margareth Clémenti), la sua giovanissima figliola. Giasone, dunque si accingeva a ripudiare Medea (Maria Callas), che pure gli aveva dato due figli, dopo lunghi anni di convivenza serena.
Sulla vicenda, che è assai nota, non mi soffermerò oltre: un breve e più articolato riassunto si può trovare QUI
Mi soffermerò invece sulle ragioni che mi hanno indotta a riconsiderare la singolare bellezza di questo film, ben oltre la splendida fotografia dei diversi luoghi: dalla laguna di Grado, con i suoi capanni dal tetto di paglia, alle abitazioni primitive della Cappadocia, al Campo dei miracoli di Pisa.
A queste diverse località, il regista fa corrispondere le svolte antropologiche più importanti della storia dell’uomo: dalla vita ferina dello “stato di natura”, tempo del “sacro”, quando gli uomini non percepivano la natura come altro da sé; all’agricoltura, momento del primo distacco cosciente fra sé e il mondo; alla razionalità della vita delle città: quelle della Grecia antica, così come Pisa (l’accostamento è frutto di una geniale analogia) e le altre città marinare, nelle quali era avvenuta la totale separazione fra l’uomo e la natura, fra razionalità e “barbarie” , fra le conoscenze profonde, scandite da riti oscuri (anche feroci, ma accettati nelle feste collettive in piena innocenza), alla freddezza della scienza, fatta di numeri aridi, al servizio del guadagno e del potere.
L’immagine significativa che accompagna lo sviluppo del film sin dalle prime scene è quella del Centauro Chirone (Laurent Terzieff), per metà uomo e per metà cavallo, che a poco a poco perde definitivamente l’aspetto animale e si trasforma compiutamente in uomo: allusiva della lunga strada percorsa dall’umanità, ma anche del nostro individuale processo di “incivilimento”, quando, diventando adulti, ci separiamo definitivamente dalle nostre origini oscure per vivere nella piena consapevolezza della morte e del dolore; dell’insensatezza, cioè, dell’esistere che ci condanna alla solitudine, dopo che sono venuti meno i riferimenti pre-razionali che davano senso alla vita.
Questo mi pare anche il significato delle parole disperate di Medea, nel momento dell’approdo all’isola di Iolco, di cui coglie l’origine artificiale, priva di qualsiasi riferimento “sacrale” (non religioso, però), capace di stabilire il giusto legame fra gli abitanti e la loro terra. La voce di Chirone, dunque, ci aiuta a comprendere l’interpretazione pasoliniana della tragedia antica di Medea e di Giasone, del Vello d’oro che lei, per amore, gli aveva permesso di portare via dalla Colchide, nonché della fine del rapporto d’amore che li aveva legati.
Ritengo interessante che nel 1953 Luchino Visconti avesse messo in scena, al teatro Manzoni di Milano, la Medea di Euripide, conferendole, attraverso l’ambientazione (insolita, allora, per una tragedia classica) un che di realistico: la Grecia antica …vista come una terra dall’arcaica civiltà pastorale… (le parole sono di Giulio Cesare Castello che allora recensì quello spettacolo): mi chiedo quanto quell’intuizione di Visconti, che fece molto discutere all’epoca, abbia influito sull'ambientazione pasoliniana, non solo di Medea, ma anche del precedente Edipo Re.
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