Regia di Enzo Acri vedi scheda film
Il titolo Un camorrista perbene è un fastidioso ossimoro enunciativo, lo slogan di lancio «comincia alla Almodóvar, continua alla Tarantino e finisce alla Woody Allen» è talmente paradossale vista la qualità del film che va preso come una provocazione simpatica e naïf. Il “messaggio” («lo Stato siamo noi» o «la speranza che un giorno qualche napoletano, chiunque esso sia, un camorrista o un politico, si svegli e ripulisca la città») è servito con inquietante piglio apologetico. Il trailer «il film che ha diviso l’opinione pubblica, criticato dalla stampa per i suoi contenuti violenti» sembra un espediente dadaista visto che - quando apparso - si riferiva a un film non ancora uscito. La scelta di dare al protagonista lo stesso nome dell’attore (Vincenzo Barbetta) sta tra lo straniamento brechtiano e un’esibizione di onnipotenza del Sistema (al punto che il regista puntualizza che è frutto della fantasia). La sbandierata intenzione di dare una risposta alle mistificazioni di Saviano e Garrone («un 3% di camorristi non può infangare Napoli») sa di trovata pubblicitaria per sfruttare comunque l’effetto Gomorra. Barbetta, un vecchio boss degli anni 80 dopo 20 anni di carcere duro, disgustato dal dilagare della violenza seminata dai clan e da bande extracomunitarie, decide con l’aiuto di un ex terrorista di dare una «ripulita» in città, uccidendo, con un mini esercito di paramilitari, giovani guappi rei di aver inquinato il Sistema. Droga, arroganza, sete di potere e soldi avrebbero minato l’organizzazione criminale. Volendo prendere per sincero l’invito a riflettere sul contrasto tra la nostalgia per i valori morali della vecchia camorra e lo spietato affarismo di quella nuova, lo spunto annega in un’orgia di sangue, sparatorie e violenze di vario tipo davvero scadente. Il “reality movie” girato in digitale ad Afragola, con 146 non attori presi dalla strada informatica di Facebook, napoletani veraci che garantissero il massimo del realismo dialettale e gestuale, è una ridicola pantomima del cinema d’azione iperbolico e violento, con scene da teatro amatoriale, dialoghi da vecchia sceneggiata sgangherata, stile da fiction delle peggiori Tv locali, il boss Barbetta vestito di bianco che alla fine del massacro palingenetico convoca i capiclan con una scena che al confronto Mario Merola dei tempi d’oro era il padrino Marlon Brando, gli schizzi di sangue e le uccisioni a colpi di mitraglietta a ralenti che sembrano fatti da un Ninì Grassia che rifà Walter Hill o Sam Peckinpah, ma sarebbe un complimento per Acri.
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