Regia di Stephen Quay, Timothy Quay vedi scheda film
La ricerca della perfezione è, per l’uomo, un’ebbra schiavitù, che sottomette la sua natura animalesca solo per farne una marionetta. L’esercizio della disciplina è un’arte coreografica e formale che, soprattutto quando è praticata all’interno di una ritualità collettiva e preordinata, non arriva a coinvolgere l’essenza profonda dell’individuo. Il regista e gli attori danno vita ad un meccanismo ineccepibile, però, nei loro rispettivi ruoli, nessuno di essi è una persona. Anche la religione può ridursi ad un culto senza adorazione, ad un’obbedienza senza partecipazione. La struttura –intesa come organizzazione liturgica o come gerarchia ecclesiale – diventa allora un contorno nitidissimo che, però, non contiene in sé alcuna sostanza; il simbolo del circonferenza, più volte riproposto in questo film, riassume proprio questa idea di compiutezza vuota e di sterile chiusura. La circolarità è inoltre la ripetizione all’infinito di ciò che rimane sempre uguale, che si avvita su se stesso anziché procedere, che gira senza scopo, non cresce e non si evolve. In questa concezione dell’eternità, tutto è fine e niente è inizio, perché, a perpetuarsi, è solo la rinuncia al cambiamento. Il sistema è tenuto insieme dal mito, verso cui si indirizzano i sogni di felicità degli adepti, e dall’adulazione verso questi ultimi, che vengono chiamati i figli prediletti, ma educati come servitori. L’Istituto Benjamenta, severo e sinistro collegio per aspiranti domestici, è la metafora del potere sui corpi e sulle menti che imprigiona anche chi lo pratica, perché incatena il pastore al proprio gregge ed alla sua funzione di amministratore delle regole. E quando ormai si è giunti a tanto, a nulla serve più cercare la libertà nell’evasione: allora siamo infatti tutti morti, non solo come esseri pensanti, ma anche come creature naturali. Non appena si spengono i fondamentali aneliti dell’anima, ossia l’amore e la fede, il tempo perde di significato, poiché non c’è più alcunché da coltivare o da sperare; il mondo stesso si ferma, e diventa grigio e freddo, come un paesaggio invernale che non attende più il risveglio della primavera.
In questo incubo esistenziale i fratelli Quay schiantano a terra l’elemento surreale, per creare un reliquiario gotico, irto dei fossili (i palchi di cervi) di favole silvestri e leggende pagane ormai defunte. L’atmosfera è traslucida, come per chi guardi un oggetto attraverso lo spesso vetro di una teca. La tradizione è moribonda, come l’insegnamento nello stile di una vecchia scuola, o gli antichi motti scolpiti nelle lapidi di marmo affisse ai muri. Mancano la luce e l’aria, tra le pareti di un microcosmo ormai in declino, condannato a finire per carenza di respiro e movimento.
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