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La antena

Regia di Esteban Sapir vedi scheda film

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La recensione su La antena

di Peppe Comune
8 stelle

In una città non ben precisata del XX secolo domina la figura malefica di Mr TV (Alejandro Urdapilleda), un magnate delle televisioni che ha ridotto la città in silenzo privando i suoi abitanti della voce. Solo una persona possiede ancora questo dono, La Voce (Florencia Raggi) si fa appunto chiamare, una donna di cui non si conosce il volto che si esibisce come cantante negli spettacoli televisivi di Mr TV. La donna ha un figlio di nome Tomàs (Jonathan Sandor), un bambino senza occhi che ha ereditato dalla madre il dono della voce e che per questo viene tenuto nascosto. Per accrescere ancora di più il suo potere sulle persone, Mr TV ha intenzione di usare le sue televisioni per rubargli anche le parole. Gli unici che possono impedirglielo sono uno strano inventore (Rafael Ferro) e il suo anziano padre (Ricardo Merkin), due tecnici televisivi appena licenziati da Mr TV per gravi inadempienze sul lavoro. A loro si uniscono l’ex moglie infermiera dell’inventore (Julieta Cardinali) e Ana (Sol Moreno) la loro piccola figlia che casualmente ha conosciuto e fatto amicizia con Tomàs. Sulle alture che sovrastano la città c’è l’antenna che consente la messa in onda di tutti i programmi televisivi. Occorrerebbe fargli trasmettere qualcosa di non omologato per cercare di ridare voce al silenzio.

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La antena- La Voce

 

        

“C’era una volta una città senza voce. Qualcuno aveva rubato le voci di tutti i suoi abitanti. Trascorsero molti anni e nessuno sembrava preoccuparsi del silenzio”.

Così inizia “La antena” del regista argentino Esteban Sapir, come una favola dai tristi presagi che intende riflettere sull’esercizio dispotico del potere partendo dalla sua naturale attitudine a rendere silente il dissenso e omologabile il conformismo. Dominato da un bianco e nero con forti connotazioni espressioniste (ricordiamo che Esteban Sapir è un ottimo direttore della fotografia) e da una messinscena che riecheggia l’impronta apocalittica e visionaria (oltre che venature grottesche) di opere come (e vado a memoria citandone solo alcune) “Metropolis” di Fritz Lang, “Eraserhead” di David Linch , “Brazil” di Terry Gilliam e “Delicatessen” della coppia Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro , “La antena” è un film che riesce nel miracolo di essere una storia per adulti adatta ai bambini, tanto abitata da ombre cupe e minacciose e da malefici uomini topo che fanno paura, quanto capace di instillare il seme dell’innocenza da recuperare. Un film muto che usa il sonoro con puntuale intelligenza, lasciando che i rumori sinistri siano gli unici ascoltabili e che la musica che accompagna il film faccia da contrappunto emozionale ad ogni singola scena. Una storia dal chiaro timbro “fantascientifico” dunque, ambientata in un non luogo e al di fuori di qualsiasi dimensione spazio temporale, ma che racconta in forma allegorica di cose che attengono all’esercizio del potere che possono avvenire in ogni tempo e palesarsi in qualsiasi luogo.

Il fare silenzio non comporta solo il fatto di non emettere rumori o di non parlare, ma anche il fare entrare in crisi il rapporto dialettico tra ciò che si deve dire e il come lo si deve sentire, tra la voce che veicola sensazioni e le parole che devono dargli un senso compiuto. Ridurre una persona al silenzio può voler dire farla morire, di una morte che è fisica e morale insieme, perché significa farla vivere sotto il ricatto di una minaccia incombente, con la paura perenne di parlare, di dire le cose che vanno dette e come vanno dette, di dare voce alle verità dei sentimenti e al senso appropriato delle parole. Ad un certo punto del film, il padre dell’inventore dice con tono speranzoso che hanno“rubato le nostre voci, ma abbiamo ancora le parole”. Ma a cosa servono le parole se sono ridotte al silenzio perché non esistono più le voci capaci di farne sentire il suono ? In questo particolare dilemma Esteban Sapir prende posizione è usa il Cinema per conferire una forma eterea alle parole, che si materializzano come delle didascalie contenute nei balloon, alla maniera del racconto a fumetti. Le lascia prendere la forma che vogliono, come se in mancanza di voci fosse questo il modo per esprimere lo stato emotivo della persona che le pronuncia. Le tiene sospese nell’aria fino al momento della loro totale dissolvenza, come per aspettare che chiunque possa raccoglierle ed esaudire le loro implicite richieste d’aiuto. Le lascia uscire dal corpo come per usarle come armi contro il potere ipnotico dei messaggi televisivi.

Una cosa che oscilla tra il serio e il faceto che ti impone a fare la visione di questo film, è il domandarsi quanto Silvio Berlusconi ci sia nella caratterizzazione di Mr TV, un magnate della televisione che ha il riporto dei capelli “plastificato”, i tacchi col rialzo per apparire più alto e che indossa sempre la giacca a doppio petto. Perché sembra evidente che, attraverso delle specifiche e (secondo me) chiare caratteristiche fisiologiche, Esteban Sapir abbia voluto usare la figura “iconica” di Silvio Berlusconi per parlare di quel "personaggio tipo" che assomma in se potere politico e potere mediatico, capacità imprenditoriale di rivoluzionare il modo di fare comunicazione e di entrare nelle case di milioni di famiglie attraverso le televisioni commerciali, e abilità politica nel fare di tutto questo un terreno di coltura ideale per la conquista e la conservazione di un ruolo dominante nelle sorti politiche di un paese. Che il potere politico si conservi meglio attraverso la detenzione dei mezzi di comunicazione di massa è chiaro da diversi decenni, come è evidente che le dittature di ogni risma hanno saputo attuare questa pratica molto bene secondo le forme e i modi più idonei alle specifiche situazioni. Ma quello che a mio avviso ha voluto fare Sapir offrendo delle (sempre secondo me) chiare analogie tra Mr TV e Berlusconi, certamente accentuandone le derive “catastrofiste”, è riflettere sullo stato di salute delle democrazie occidentali puntando l’accento su come il tessuto culturale su cui si fonda possa essere messo in crisi in maniera semplice e indolore lavorando direttamente sul senso delle parole e sull’immaginario da offrire al palcoscenico del reale, lasciando che poco alla volta l’unica voce ascoltabile sia quella della televisione, che l’unica verità attendibile sia quella che da essa ha ricevuto la legittimità ad esistere. Infatti, Mr TV, dopo aver tolto la voce ai suoi concittadini, vuole rubargli anche le parole. Prima si è preso ciò che consente alle persone di trasmettere il proprio pensiero, poi vuole andare ancora più in fondo, rubandogli la cosa che da effettivamente sostanza alla ragione critica di ognuno. Perché senza parole le persone non possono più comunicare scambiandosi pensieri e se non c’è trasmissione vicendevole di pensieri a prevalere è il dominio incontrastato del pensiero unico e di chi ne detiene il monopolio. L’unica voce ancora udibile è quella di una donna di cui non si conosce il viso, assoggettata a questo potere dalla natura sfuggente, costretta ad omologare il proprio talento ai suoi interessi commerciali e alla sua voglia famelica di avere sempre più potere. Solo in esso e alle sue condizioni può sperare di sopravvivere come voce viva e concreta. Occorrerebbe un’altra voce, diversa e dissonante, che arrivi inaspettata a mettere in crisi equilibri consolidati, a mettere in discussione un ordine delle cose che si vorrebbe immodificabile. Ci vorrebbe una voce non omologata che sappia ridare potenza alle parole (apro volentieri una parentesi per sottolineare su questo punto specifico le assonanze poetiche di quest'opera con il bellissimo film del canadese Bruce McDonald “Pontypool”, che pur partendo da altri presupposti stilistici e narrativi, riflette sulla destrutturazione del senso delle parole vista come la premessa essenziale per il configurarsi del potere innocuo e dispotico insieme dei media).

Tutta la parte finale del film è bellissima, e come le migliori favole, gioca con la descrizione chiara del miglior esito possibile da dare alla storia e la carica simbolica da attribuirgli che va molto al di là di quello che ci viene fatto vedere. La scena in cui l’intera popolazione della città è indotta da un programma televisivo a cadere in una sorta di catalessi collettiva è annichilente per come ci viene mostrata e per quello che intende evocare. Perché rappresenta il sonno della ragione portato al suo culmine concreto ed è mostrato al Cinema con una forza visiva davvero prorompente. Una forza che poi si allinea ad uno sviluppo narrativo che rimette di nuovo al centro del narrato la parola in quanto tale, con il suo suono univoco e nel suo significato più diretto e percepibile. In un finale da resa dei conti tra i buoni e i cattivi dominato dalla presenza di un bambino che ripete più volte in tono lamentoso soprattutto una parola, tra quelle più soavi, dolci e belle che ogni essere umano voglia sentirsi dire : mamma.

Film di un’intelligenza sveglia e di una bellezza sorprendente, che omaggia con discrezione il Cinema degli albori dimostrando nei fatti che il linguaggio cinematografico è una materia viva che si rinnova continuamente anche solo attingendo dalla grammatica che già esiste e resiste.            

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