Regia di Stephen Quay, Timothy Quay vedi scheda film
Un documentario rovesciato, in cui sono gli oggetti di un museo a guardare i visitatori. E intanto rivivono, segretamente, dentro di sé, i fatti di cui sono la muta, e apparentemente inerte, testimonianza storica. Gli arredi e i luoghi che li ospitano dimostrano di possedere una vita propria, costituita del ricordo mai morto di ciò che è successo a loro e alle persone a cui, un tempo, sono appartenuti. Ancora una volta, l’arte dei fratelli Quay mette in scena l’anima nascosta delle cose, che parla il linguaggio non verbale delle figure in movimento: un moto che non segue la dinamica dell’azione, bensì il percorso indagatore dello sguardo, che esamina i dettagli di un quadro o sfoglia le pagine di un libro, oppure il viaggio creativo dell’immaginazione, che ricostruisce mentalmente il passato a partire dalle poche tracce residue. Questo è quanto accede durante il giorno, sotto il sole (ossia, nel nostro caso, nelle ore in cui il museo è aperto il pubblico); non appena le luci si spengono e le porte si chiudono, la realtà ben definita e descrivibile è soppiantata da una dimensione interamente fantastica, in cui le forme della concretezza appaiono sfuggenti e sfumate. L’animazione diventa allora il teatro dell’intuizione irrazionale, del sogno incoerente che non si può raccontare, dei fantasmi di suggestioni a volte soltanto incontrate di striscio. Come in Nocturna Artificialia, le incursioni nel mondo onirico servono a sconnettere la logica comune, la concatenazione di causa ed effetto, creando un disorientamento spazio-temporale che consente al racconto di svilupparsi, istante per istante, impedendogli, però, di giungere a compimento. In questo film la corsa della carrozza tirata dai cavalli è un processo che indica una direzione, ma non perviene ad una meta identificabile. La narrazione, in cui alcune scene si ripetono identiche, senza che se ne chiarisca il significato, si svolge in un eterno durante, il quale abolisce il divario tra passato e presente e, come i soggetti dei ritratti appesi da secoli alle pareti di una casa, punta dritto all’immortalità. Questo inventario di tracce è una collezione di indizi di un passaggio, avvenuto tanti anni orsono, però mai veramente terminato: un cammino che continua a solcare il terreno della storia, attraverso le idee racchiuse nelle immagini, che macchiano le tele e imbrattano la carta, e a partire da lì s’imprimono, come idee viventi, nel nostro pensiero.
Il film è stato realizzato nel castello di Lancut, in Polonia, che oggi ospita un museo, famoso soprattutto per la sua collezione di carrozze a cavalli. Costruito nella prima metà del XVII secolo, divenne, nel 1830, la residenza della famiglia Potocki. Jan Potocki (1761-1815), a cui il documentario è dedicato, è ricordato come un uomo politico, uno storico, un etnografo, un archeologo ed uno scrittore, autore di drammi teatrali, di racconti e del romanzo Il manoscritto trovato a Saragozza.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta