Regia di Woody Allen vedi scheda film
Il problema Woody Allen si ripresenta ogni anno con cadenza millimetrica, proprio come le epidemie influenzali e il variare delle stagioni. E se per lungo tempo qui in Europa sono state le prime lagunari brezze settembrine (la Mostra del cinema di Venezia intendo) ad ospitare in anteprima quasi tutte le sue opere, da qualche anno ha preferito invece optare per un’altra spiaggia balneare e una differente stagione (Cannes e la primavera inoltrata che sconfina nell’estate) per lui evidentemente adesso più “redditizia” e “confacente”. Cambia cosi lo scenario e il clima, ma purtroppo si differenzia di poco il risultato, stanco e ripetitivo quasi sempre, nonostante l’indiscussa qualità della sua scrittura che rimane di uno standard elevato, ma che avvince ed appassiona sempre meno, e a volte risulta persino un po’ irritante (parlo a titolo personale, ovviamente, perché per quel che mi riguarda, “il ricordo nostalgico” dei bei tempi che furono rendono ancor meno entusiasmante la piatta confezione quasi seriale del presente).
Stacanovista della macchina da presa come pochi altri, infatti, sembra che non possa proprio esimersi dallo sfornare la sua pellicola “d’annata”, un po’ come si fa con i piatti delle ricorrenze celebrative di certi ristoranti che modificano solo un tantino la figura riprodotta senza altre sostanziali variazioni, di fatto rendendoli così non solo monotonamente uniformi fra di loro, ma anche assolutamente interscambiabili se non per la data di produzione. Segno evidente che la sua non è una pressante esigenza creativa dovuta a un “eccesso” di ispirazione di un esuberante estro artistico in costante movimento, ma bensì (e credo proprio di non sbagliarmi) il risultato di un bisogno di carattere più strettamente alimentare (per “poter tirare quattro paghe per il lesso”, insomma), visto che di nuovo c’è sempre molto poco dentro e che deve ogni volta arrampicarsi sugli specchi ed ingegnarsi parecchio per tirar fuori un’ideuzza decente sulla quale poter costruire poi le nuove storie assemblando ritagli di una intelligenza di eccellente levatura, ma che ormai ha già quasi del tutto spremuto e dalla quale forse rimane pochissimo da tirare ancora fuori, anche per colpa di una capacità inventiva che con gli anni si sta facendo sempre più fiacca e meno incisiva.
Sconsolato tramonto dunque di uno dei più strepitosi talenti della cinematografia mondiale del novecento che si ostina ad essere iperattivo ad ogni costo anche quando latitano le idee, ed è così costretto a riciclarsi con la consueta bravura nell’impaginazione, certo, difficile poter negare questo, e persino con qualche momento divertente e “ineccepibile” che riecheggia agli anni d’oro, ma anche con tanta (troppa) stancante tediosità che potremmo definire del “risaputo”.
E’ una premessa a mio avviso necessaria questa, che qualcuno troverà ingiusta e un tantino cattivella, persino “inopportuna” (sicuramente un po’ provocatoria, non lo nego), che mi consente di introdurre il mio discorso su Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni uscito sui nostri schermi solo nell’autunno scorso, ma che potrebbe benissimo essere utilizzata anche per molte delle altre sue più recenti imprese cinematografiche senza bisogno di modificarla di una virgola, segnale evidente di un’“accorata delusione” che devo assolutamente esternare in qualche modo. Mi auguro semmai vivamente che possa essere sconfessata (perché nonostante tutto continuo ad “amarlo” questo piccolo ometto con gli occhiali tutto cervello e tanto corrosivo vetriolo) da ciò che nel frattempo ha realizzato (e sta già producendo per il futuro). A Cannes è infatti già passato con successo il suo Midnight in Paris che, stando almeno a quello che si è letto – ma non mi fido più molto della critica, stretta nella morsa del “mito” e per questo spesso incapace di esprime un giudizio oggettivamente ponderato – dovrebbe essere di molte spanne superiore (conferma che arriverebbe anche dai positivi risultati degli incassi in patria ritornati ad essere decenti dopo molto tempo) a questa sua commediola agra ma un tantino stantia e persino un po’ noiosa a tratti (a mio avviso uno dei punti più bassi da lui raggiunti, che ovviamente – e anche questo è necessario evidenziarlo - per la “maestria” anche tecnica della messa in scena rimane comunque molto superiore alla media dei prodotti più omogeneizzati della cinematografia contemporanea). Lo aspetteremo poi di nuovo al varco con ciò che è già in fase avanzata di lavorazione, ovvero la sua ulteriore fatica che lo vede impegnato proprio qui in Italia, con generoso dispiego di nostrane star nel cast.
Dal suo punto di vista lui, che continua a “saper fare molto bene” il suo mestiere (anche se purtroppo con molta meno “vocazione” ed estro), ha ragioni da vendere e da rivendicare (ne ha tutto il diritto intendo) e fa altrettanto bene anche a “sfruttare” i contributi per le promozioni “turistiche” corrispondenti alle differenti ambientazioni che ormai sempre con maggiore evidenza orientano le sue recenti scelte (una abdicazione “al commerciale,” che ai miei occhi appare però un pò avvilente ed appanna l’etica della figura).
Io che mi considero un “alleniano doc” (relativamente però ai suoi copiosi capolavori di quel rimpianto periodo aureo che sembrerebbe ormai definitivamente tramontato), è dalla fine degli anni ’90 che non mi ci ritrovo più particolarmente “comodo” e soddisfatto come un tempo dentro il suo cinema, visto che in tutto questo lunghissimo lasso di tempo solo Match Point mi ha abbastanza entusiasmato (i certamente positivi e compatti risultati centrati con Basta che funzioni non mi hanno invece per nulla ammaliato, poiché a mio avviso sono dovuti semplicemente al fatto che la sceneggiatura utilizzata apparteneva “ancora” al fulgido periodo ispirativo degli anni settanta, poiché il copione era stato scritto proprio in quell’epoca con l’intento di realizzare una pellicola che avrebbe dovuto avere per protagonista Zero Mostel, progetto purtroppo tramontato per la morte dell’attore). Ripresa adesso, aveva evidentemente l’ispirata consistenza scoppiettante e granitica di quei tempi, priva di imbarazzanti pause e di lentezze, ma con il pesante “fardello” di essere stata nel frattempo già ampiamente “saccheggiata” per travasarne idee e brandelli nelle opere che Allen ha realizzato successivamente, così che ripescata tanto tardivamente dal cassetto dove era stata riposta, ha finito per rendere più evidente, diventando una vera e propria cartina di tornasole, l’involuzione dell’ispirazione odierna un po’ aggravata da quel senso un tantino disturbante di dejà-vu).
Per uno come me che ha visto tutto ciò che di grande ha prodotto questo acutissimo ometto piccolo e occhialuto, è ormai forse difficile entusiasmarsi o stupirsi di fronte alla sua attuale produzione oggettivamente molto più routiniera (difficile anche dichiararsi totalmente delusi però, devo ammetterlo, visto che in ogni sua opera troviamo ancora disseminato qua e là qualche marginale sprazzo di genialità: la classe non è acqua, no? non è cos’ che si dice in genere? E nemmeno Allen si smentisce in questo).
Il problema però è la reiterazione un po’ pompata delle tematiche che finisce per dirottare il tutto verso il pericoloso terreno del “già visto”, proprio perché non c’è più alcuna sorpresa (ma nemmeno attesa o emozione): conosciamo già alla perfezione quali potranno essere i momenti topici e le battute più acide e salaci che ci propinerà, e “sappiamo” già partenza “esattamente” cosa c’è da aspettarsi nel prosieguo. Le uniche incognite quindi sono rappresentate dall’alchimia più o meno soddisfacente degli ingredienti utilizzati magari ben mischiati e dosati fra loro, ma ormai così abusati, da cominciare ad avere il sapore un po’ rancido delle minestre troppe volte riscaldate; dalle scelte piacevolmente “ammiccanti” della colonna sonora,[1] dal cast sempre variato degli interpreti e dalla città scelta per ambientare la storia, visto che da quando ha messo il naso fuori da Manhattan, Allen ha cominciato a fare il “gran tour” delle località europee turisticamente più attraenti e “generose”: Venezia, Barcellona, Parigi, Londra e Roma (per la pellicola ancora in lavorazione), quasi tutte utilizzate per una “toccata e fuga” di “una volta e via” tranne Londra che ritorna più volte a far capolino quasi come se rappresentasse ormai una specie di sua seconda patria, e che fa da cornice anche a questo gruppo di vicende intrecciate, vivificate da un folto stuolo di attori magnificamente diretti, non c’è che dire, che vede questa volta scendere in campo fra gli altri Gemma Jones, Anthony Hopkins, Naomi Watts, Josh Brolin e Antonio Banderas .
“Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni”, dunque (o meglio “You will meet a tall dark stranger”) ennesimo caleidoscopico non-sense della vita, che parla soprattutto della necessità di credere che un colpo di fortuna possa ribaltare quasi magicamente la nostra triste esistenza.
Fra delusioni cocenti e illusioni d’amore spesso tardive, centrifugate in un girotondo frenetico (non certo nel ritmo però, e non sempre divertente o appassionante) di destini imperfetti, presentati e descritti da un narratore onnisciente dietro al quale sembra di intravedere proprio Woody Allen, si ritrovano inalterate tutte le sue ossessioni ed i suoi tic (oltre che le battute spesso un po’ usurate) tra cui primeggia l’inesorabile incalzare della vecchiaia che sta diventando per lui una specie di ironica fissazione.
L’imprevedibilità del caso, come già in una grossa fetta della sua passata produzione, governa anche qui le vite dei vari personaggi rendendo vani tutti i loro sforzi. Così (e cito a titolo di esempio solo alcune cose per non dilungarmi troppo sulle complesse connessioni a incastro del soggetto) un prestante istruttore di ginnastica infrange ad Alfie l’illusione di una possibile, seconda giovinezza, mentre sarà l’amica di Sally, un’altra delle presenze femminili del racconto, l’unica che riuscirà davvero alla fine, in soli due minuti e passa d’orologio, a trovare il tanto desiderato principe azzurro.
I tempi sono spesso brillanti e serrati, altre volte più sfilacciati e un tantino monotoni intasati dalla verbosità delle parole, la bravura degli interpreti scontata come al solito, ma le tematiche assemblate (una satira molto laica sulle credenze di ogni tipo) danno la fastidiosa sensazione di un bric-brac “depredato” a man bassa dal passato, abilmente riassemblato ma non sufficientemente “camuffato”.
Cos’è rimasto allora del grande inventore di una volta (scorrere velocemente l’elenco dei titoli della sua corposa filmografia fa aumentare la rabbia della nostalgia)? Un bravo professionista dell’umorismo che non sempre mantiene il motore al giusto numero di giri, che riesce sempre meno ad intrigarmi ma dal quale continuo ancora a speraren in una sua tardiva “resurrezione”.
[1] When you wish upon a star Makes no difference who you are
Anything your heart desires
Will come to you.
If your heart is in your dreams
No request is too extreme
When you wish upon a star
As dreamers do.
Fate is kind
She brings to those who love
As sweet fulfilment of their secret downs
Like a boat out of the blue
Fate steps in and see’s you through
sono i versi di “When You Wush Upons a Stars”, scritta per il film Pinocchio e poi diventata theme song della Disney , note che aprono anche il film di Allen, e lo accompagnano in buona sostanza fino alla fine della pellicola.
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