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Don Giovanni

Regia di Carmelo Bene vedi scheda film

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La recensione su Don Giovanni

di (spopola) 1726792
8 stelle

Ho avuto l’emozione ed il piacere di vedere questo film direttamente al Lido, in occasione dell’anteprima con Bene presente in sala, quando ancora il festival di Venezia non era così festaiolo, gaudente e  chiacchierato come adesso (niente “tappeto rosso” sulla sua strada, nemmeno all’orizzonte, tanto per intenderci) e “certe” rarità pur regolarmente invitate alla rassegna, si potevano gustare relegate di pomeriggio in una sala (quella ufficiale della mostra) certamente poco gremita dove erano mescolati “critici” in gran parte immusoniti ed annoiati  ed una esigua schiera di normali spettatori paganti (prezzi decisamente popolari ed abbordabili) timidamente reverenti, seduti  praticamente “fianco a fianco” con l’autore, senza divisioni di casta e di “mansioni” (conseguenza ed effetto positivo delle contestazioni sessantottine che avevano portato anche nei paludati cerimoniali festivalieri  una salutare ventata di “uguaglianza” per una più omogenea fruizione degli eventi culturali, presto dispersa).

Una “democratica” platea d’altri tempi insomma (cos’era? Il 1969 se non erro) che  permetteva di cogliere dal vivo “umori” e reticenze, con la spontaneità dell’immediatezza, senza filtri o successivi “ripensamenti”, poiché si sa come vanno le cose qui in Italia con le  rivalutazioni “postume” che  puntualmente arrivano anche “fuori tempo massimo” a ribaltare concetti e posizioni precedentemente espressi.

Accoglienza piuttosto fredda e poco conciliante devo dire (come era prevedibile che fosse) da parte di un parterre critico che seguiva spesso con supponente svagatezza l’opera, distratto e salottiero, persino un po’ turbolento nei brusii che tendevano ogni tanto – in corso di proiezione - ad evidenziare manifesti dissensi verso scelte che sicuramente si ostinavano a considerare troppo radicali per i loro gusti un po’ conformizzati, tanto che i tributi entusiastici furono riservati all’autore soprattutto dai “meno preparati” spettatori paganti, io compreso, arrivati in loco per l’affetto e la stima verso l’attore/regista  e il suo talento “fuori norma”, non ancora assurta alla gloria dei grandi, ma semplice “idolo di nicchia” di esigue dimensioni. Un autore insomma per molti versi scomodo e come sempre, irrispettoso di regole e precetti, egocentrico, strabordante e un poco impertinente (anche nei suoi commenti a caldo), che osservava ghignante e compiaciuto poco turbato dalle reazioni ostili che serpeggiavano a tratti, confermando così il suo dichiarato e profondo “disprezzo borghese”  che, sul frontespizio del quasi contemporaneo volume L’orecchio mancante (polemico e insofferente pamphlet che chiamava in causa critica e industria cinematografica  con lampanti riferimenti anche a ciò che era accaduto a Venezia) uscito dalle stampe il 24 luglio del 1970 per i caratteri della Feltrinelli nella benemerita collana  “Materiali”, gli avrebbe fatto scrivere di lì a poco la seguente “diatriba” programmatica che ben sintetizzava il suo pensiero al riguardo nel linguaggio al tempo stesso “crudo ed arzigogolato”, denso di riferimenti e di metafore pungenti barocco come la sua arte: Come mai in tutte le altre “speculazioni artistiche” la vecchia polemica naturalistica si è spenta, schiantata da evidenze arcinote, e solamente nel cinema la si continua a portare avanti con una ostinazione asinina, sorda muta e cieca a tutto danno dell’”ORA” e del “SEMPRE”, con la meschineria dell’alibi della FRUIZIONE? Che cos’è mai questa leggenda della fruizione? Contemplazione del PUBBLICO? Ma se lo si è sempre dato, questo pubblico, come il “grande” assente! Oppure, a partire da Adamo, è il cinema che se n’è accorto per primo? Se ne è accorta, è vero, l’industria cinematografica, ma non certo per “nobiltà dello Spirito” o umanistico impegno, ché lo vuole “pubblico” questo pubblico, rincretinito com’è: ci penserà Lei, l’Industria, a prosciugare il bassorilievo dei pomodori filmati al sottoterra dei loro occhi-bottoni perduti. Basta imitarlo il pubblico, senza eccessive riserve somatiche: cocomeri per teste, insalate per boschi, giudei cremati per abbacchi. Purché si mangi!

Per ritornare “a botta” comunque, il Don Giovanni qui rappresentato (ancora di diretta derivazione teatrale come matrice, ma totalmente “adeguato” nel linguaggio allo “specifico” cinematografico)  era la sua attesa e già molto “chiacchierata” terza regia, dopo l’impatto travolgente dell’esordio “disturbante” (per i benpensanti bigotti, ovviamente che non avevano dimestichezza con il suo teatro e non erano capaci di guardare oltre il proprio naso, scandalizzati soprattutto dalla dissacrazione del mito religioso della Madonna, che in una scena sotto la sua aureola fuma e legge a letto “Annabella”) di Nostra Signora dei Turchi,  (opera fondamentale e travolgente fortemente innovativa e clamorosamente fraintesa, se si pensa che un non meglio identificato critico le cui iniziali sono “o. a.” – ed è ancora L’orecchio mancante che ce lo documenta - la “massacrò” così, definendola praticamente una inguardabile porcata:  Pensare che questo film sia stato presentato a Venezia, è cosa orripilante e abominevole. Se si ricorda poi che ebbe anche un premio speciale della Giuria della Mostra, c’è da far rivoltare lo stomaco e gli intestini tutti. Occorre conoscere Carmelo Bene, conoscere la sua levatura e la sua pochezza per non giustificare, ma almeno comprendere come si possa scendere così in basso. Egli è del film regista e orrido protagonista perché oltre tutto, egli è estremamente repellente. Cosa il film voglia dire è una cosa che forse neppure lui avrà compreso. Una Santa che nel film sarebbe “La Nostra Signora dei Turchi” scende sulla terra ad aiutare un uomo sperduto e sbandato, che dice parolacce e la chiama puttana. Questa Santa che alla fine se ne va delusa per non essere riuscita nel suo sperato salvataggio che nel film è ben localizzata come Santa o Madonna, o Signora dei Turchi, porta per tutto il film l’aureola. Il che, visivamente parlando, la rende follemente ridicola. Tutto ciò senza considerare l’insistenza affannosa di quanto di irriverente ed iconoclasta nel film vi sia. Del resto tutto il film vuole essere una contestazione. Contestazione ridicola, ma contestazione. Il film ha una cosa molto intelligente: il dialogo di un personaggio è sempre sovrapposto dal dialogo di un altro personaggio, ed ambedue sono sovrapposti da una voce di commento fuori campo. Ne deriva il fatto che non si riesce a capire una parola e pertanto, se gli occhi dello spettatore rimangono feriti, le orecchie sono salve. Noi del dialogo siamo riusciti solamente a capire una cosa intelligente: ci sono due uomini che si altercano e uno dei due d’un tratto dice all’altro: “ma vatti a mettere il telefono”. Dopo di ciò, non crediamo di dover dire altro (…) Ci addolora invece un altro fatto, che un ammasso di smidollati, incompetenti pseudo-giornalisti abbiano avuto nelle recensioni sui giornali per la pellicola, qualche volta parole di elogio, quasi sempre di comprensione. Ecco uno dei motivi per il quale dei folli scatenati fanno questo genere di film, più bassi di quelli di Tinto Brass, ed alcuni improvvisati e deficienti produttori, affidano le loro risorse a cotali persone. L’anarchia di questo inqualificabile individuo non si è fermata al visivo e al parlato, la sua mancanza di cultura è stata soddisfatta nel mettere sopra l’immagine di Santa Margherita d’Otranto, la Nostra Signora dei Turchi appunto, canzoni popolari, pezzi d’opera, dei melodrammi ed una ignobile confusione di rumori. Povero cinema italiano!”) seguito dal successivo e più discusso per lo spiazzante cambiamento di registro non immediatamente compreso, Capricci  che aveva prontamente giustificato “qualche” distinguo di troppo a conforto delle riserve iniziali, atto a ridimensionare con saccente preveggenza, il senso e la portata del lavoro  (anche di svecchiamento non solo formale) operato da questo geniale uomo di spettacolo. Di nuovo “cangiante” nella struttura, questo Don Giovanni si presentava come una vera e propria prova del fuoco, perché rappresentava in qualche modo, soprattutto per gli scettici, la cartina di tornasole per stabilire “con chi si aveva a che fare” e definirne, cinematograficamente parlando, la “statura” e l’importanza effettiva. Fu anche per questo che – immagino – risultò abbastanza depistante trovarsi catapultati in un’opera così densa che andava a suo modo ancora “oltre”, analoga e “rinnovata” allo stesso tempo, ma  che sferrava però un ulteriore, violento “pugno nello stomaco” al perbenismo piantato con la feroce ostentazione  delle sue beffe drammatizzate così irridentemente provocatorie: Don Giovanni è indubbiamente meno ricco e ridondante nella struttura narrativa di  quanto non lo fosse invece Nostra Signora dei Turchi,  oltre che meno elaborato e più “diretto” di Capricci, anche se è ugualmente tutt’altro che “normalizzato” nel suo incedere  per iperboli e sovrapposizioni. Se in questo caso però il godibile “divertimento” dell’assunto potrebbe  sembrare un po’ più fine a se stesso che nelle precedenti opere (il riscontro oggettivo è però poi di differente natura almeno secondo il mio personale punto di vista), bisogna riconoscere che è proprio con quest’opera che l’abilità di Carmelo Bene, il suo “istrionismo d’autore”, tocca uno dei suoi vertici più elevati fra compiacenti dissacrazioni e disperate riflessioni sulla solitudine esistenziale dell’uomo e dell’attore.

Come sempre, Carmelo Bene è “autore” in toto dei propri spettacoli, a partire dalla (ri)scrittura del testo: contamina, modifica e aggiusta a piacimento, ciò che rimane dell’ispirazione primaria che non è quasi mai ossequiosa della tradizione più usurata  (nel caso in esame, i riferimenti “certi” ma assolutamente liberi e “indipendenti”, devono essere attribuiti al racconto  Il più bell’amore di Don Giovanni tratto dai Diaboliques dello scrittore cattolico Barbey D’Aurevilly). Niente Tirso da Molina, o Molière insomma: qui siamo davvero in un altro territorio, persino lontani da Mozart e Da Ponte, perché il personaggio così come era stato visto fino a quel momento da scrittori e musicisti, non c’entra proprio nulla con il film che si muove in tutt’altra direzione. E anche questa volta,  il suo valore l’opera lo assume grazie all’inusuale sviluppo della forma: un andamento volutamente antinarrativo, fra digressioni, citazioni, eccessi e barocchismi di tale portata e natura, così spinti all’estremo, da rendere se non ardua, almeno un tantino ostica la lettura per lo meno a un primo approccio.

Era la natura stessa istrionica, narcisista e provocatrice di un uomo di spettacolo che non ha eguali, a portarlo ad eccedere sempre e comunque, rifiutando la linearità dell’azione, anche se poi con il suo gusto della contrapposizione, esasperava i suoi contestatori  che proprio non ci si “raccapezzavano” dentro,  affermando spavaldamente che fra tutte quelle da lui realizzate fino a quel momento questa pellicola  era il risultato più limpido ed “omogeneo”, con una rispettata “coerenza narrativa”, monda di ogni residuo sperimentalismo di quella che definiva, una personale lettura in chiave di saggio dell’’immacolata concezione, del vuoto e della solitudine esistenziale realizzata affidandosi più che alle tematiche, del resto intercambiabili e aperte a ogni interpretazione (Qualsiasi cosa abbiate capito per me va bene, sosteneva sibillino) all’estro figurativo e mimico del grande inimitabile illusionista (quale lui era e si definiva). Non era ovviamente presunzione la sua, ma “assoluta consapevolezza”, poiché chiunque ha avuto a che fare con la forza affabulatrice del suo talento, sa che era davvero capace di rendere accattivante, e soprattutto catalizzatrice di passioni controverse e viscerali fino al fanatismo, persino la lettura dell’elenco telefonico con quello spesso laido “deformante” biascicare sulle sillabe strascicate oltre misura, che in qualche spettacolo contemporaneo, come omaggio estremo alla sua arte, Franco Branciaroli cerca di rianimare con il rispettoso “gusto” dell’imitazione palese ma non dissacrante. Un artista a tutto tondo, dunque, colto e qualificato, dall’inesauribile inventiva capace di fondere all’occorrenza Pinocchio con le musiche di Aleksander Nevskij in un variare di immagini che davvero abbagliano nella loro opulenza, intrise come sono di meridionali e spagnolesche colorature, che si traducono però questa volta in una cupa ossessione intrisa di narcisismo e di  impotenza, magnificamente rappresentata con forme provocatorie, chiuse, reiterate, strane, smisurate nei costumi, nella recitazione, nei gesti, senza aperture e spiragli se non per addentrarsi nei sentieri che portano alla morte  e all’autodistruzione  (Aprà) e capace, attraverso le indimenticabili immagini, i suoni, i movimenti, le parole, di definire una morale della storia angosciosamente coinvolgente nel suo “rimettere in discussione”  il modello stesso di una “leggendaria” figura resa immortale dalla convenzione con la caotica cultura e il delirante esibizionismo istrionico che lo contraddistinguono (Il Morandini) davvero inimitabili e purtroppo irripetibili.

Il film che ne esce fuori  (a suo modo una  estrosa divagazione “parodistica” – ma alla maniera di Bene ovviamente - sul mito del grande seduttore) è straordinario nel su impatto immediato, carico – come si è visto – di un barocchismo allucinato ed esasperato zeppo di specchi, immagini sacre e rielaborazioni iconoclaste (il seduttore che  per tentare di carpire la sua preda, una scialba bambina con tendenze mistiche debordanti verso una vera e propria mania religiosa, si assoggetta – senza successo - ad assumere persino le sembianze del Cristo in croce), in cui si riflettono marionette e bambole fra  esercitazioni culinarie ed interminabili dissertazioni verbali. Perché il genio dell’attore ha l’ardire di esporre sopra le righe (quasi come in una caricatura un po’ ossessiva)  addirittura se stesso e il suo genio, con straripante e non ordinario effetto demistificante (il tema dell’”irresistibile rubacuori” è fortemente ridimensionato e “ristrutturato”, persino “capovolto”, visto che qui colui che rappresenta:il mito assoluto e universalizzato della seduzione,  diventa invece la vittima “impotente” e designata delle sue stesse prede: la realtà di Don Giovanni sono le sue donne, le sue conquiste  e il Don Giovanni/ Carmelo che intende sedurre la piccola santa risulterà alla fine da lei “sedotto”, ne uscirà in pratica “sconfitto”).

In questa ancora una volta “disumana” fatica mattatoriale, l’attore/regista è accompagnato e assecondato da una bravissima Lydia Mancinelli (negli anni irripetibili di quella lontana stagione così produttivamente feconda, anche sua compagna di vita oltre che di lavoro, prima che fosse distratto da altre più appetibili mete,  a formare insieme una delle più “creative” coppie che hanno reso possibile la rivoluzione dal basso di una stantia  tradizione cultural-artistica partendo proprio dalle assi del palcoscenico utilizzando gli inusuali spazi nudi delle cantine: Leo e Perla…. Carmelo e Lydia, appunto,  e a seguire… i coniugi Santella, Giancarlo Nanni e Manuela Kusterman, e così via discorrendo).

La revisione “controcorrente” del mito, quel suo svuotarlo progressivamente  dall’interno è magnificamente sorretta da straordinarie intuizioni registiche che la caricano e “sorreggono” con il frequente uso di moduli ripetitivi che reiterano le immagini ossessive, astratte e visionarie (di nuovo questo aggettivo che qualcuno recentemente ha considerato sul sito un po’ troppo inflazionato, ma francamente a mio avviso, quando ci va ci vuole, poiché meglio di altri definisce il senso e “semplifica” il discorso… e poi scusate, il cinema è o non à “l’arte della visione”?) del percorso narrativo, fino al finale, in cui la solitudine del protagonista non è solo narcisismo che si “rispecchia” in se stesso, ma diventa angoscia esistenziale che trasforma il tutto, come già accennato sopra, in un disperato desiderio di autodistruzione.

Come sempre composita e articolata la scelta delle musiche che “si adagiano” sulle immagini come meglio non sarebbe possibile fare: da Mussorgskij a Bizet, da Bela Bartok a Donizetti, da  Verdi a Mozart. La fotografia, sempre così importante per il risultato “visivo” delle sue opere è invece affidata alle cure e al talento di Mario Masini.

 

Appendice:

La strafottente disputa espressa da Bene con il saggio  fortemente demistificante sulla (dis)funzione della critica L’orecchio mancante  già sopra citato “dichiaratamente” imparentato almeno per una parte cospicua del suo percorso proprio con Don Giovanni, è  polemicamente dedicata all’allora Presidente della Repubblica Italiana Giuseppe Saragat,  al quale si rivolge in apertura del volume con questa lettera semi-aperta che trascrivo in parte:

 “Egregio Presidente, pienamente in possesso delle mie facoltà mentali, sollevo lo STATO ITALIANO da qualsivoglia responsabilità artistica del mio “comportamento”, e il competente Ministero del TURISMO almeno dal MIO “spettacolo”.

Intelligentemente ossequioso dell’ancora attuale STATUTO “fascista” che regola la BIENNALE DI VENEZIA (soprattutto la “mostra d’arte cinematografica”), La scongiuro volere Ella intercedere a che nulla venga mutato in proposito, di modo che qualsivoglia potere partitico o partitico-artistico non subentri arbitrariamente ad occupare lo spazio ormai  sfatato – e perciò disponibile ancora concretamente – di una REALTA’ FANTOMATICA, sostituendovi il FANTASMA REALE di qualsivoglia POTERE.

Ella mi insegna come innumerevoli COSE – oltre il gioco del calcio -, e comunque più urgenti del l’”arte”, attendono di essere “rivisitate”.

ANTICOSTITUZIONALE è (innanzitutto) NASCERE – e qui non basta davvero RICOMINCIARE DA ZERO (…) Io le parlo da “artista”, beninteso: me ne assumo il dovere e la responsabilità anche a costo di rinunciare al diritto di questa mia “cittadinanza Italiana”. (…)Ho quanto mai il diritto di scegliere ed è inutile dire che ho scelto il DOVERE”.

Prosegue poi così, rivolto al lettore (visto che userà davvero parole e concetti molto forti): Questo discorso si chiama dell’inferno. E non mi accusate di maldicenza se dico male di coloro che vi stanno, giacché è assolutamente impossibile che vi sia dentro uno solo che sia buono. Se poi ti sembrasse troppo lungo, sai come fare: prendi quel tanto di infermo che ti basta, e sta’ zitto. E se qualche cosa non ti piacesse, sii tanto pietoso da tacerlo, o tanto dotto da correggerlo: errare è infatti proprio degli uomini, ed essere ferrato si addice solo alle bestie o agli schiavi. Se ti parrà oscuro, rifletti che mai non fu chiaro l’inferno, se triste e melanconico, ricorda ch’io non t’ho promesso risa…

… Per concludere, se il mio Discorso ti piacerà, ne caverai diletto; e, se no, poco importa, perché io, di te, non so che farmene.

A pagina 136 di tale volume, nel rivendicare proprio la sua autonomia artistica rispetto al Don Giovanni chiosa poi con  il breve pezzo che segue, a mio avviso ancor più caustico e impertinente,  intitolato “SCORTESIA DEL LETTORE”:

(.. “…Un giudizio che si può esprimere per comparazione è che DON GIOVANNI sembra più riuscito di CAPRICCI, ma non ha la potenza di NOSTRA SIGNORA DEI TURCHI…”)

“LA DOPPIA SCORTESIA DEL LETTORE VERSO L’AUTORE CONSISTE NEL FATTO DI LODARE IL SECONDO LIBRO DI QUESTO A SPESE DEL PRIMO (O VICEVERSA)…

(qui la scortesia è TRIPLA)

e comunque:

                        NOSTRA SIGNORA DEI TURCHI

                        è la MORTE

                        raccontata da un VIVO

                                    e

                        DON GIOVANNI

                        è la VITA

                        raccontata da un MORTO.

 

Sempre attingendo dallo stesso saggio, per inquadrare meglio il tempo, i modi, e i movimenti che l’opera suscito al suo intorno anche proprio in rapporto al concetto di “barocchismo” ,caratteristica peculiare e fondamentale del suo cinema, qui portato alle sue estreme conseguenze e da qualcuno utilizzato beffardamente come elemento  di “negatività” denigratoria  per altro applicabile in toto a tutta la corrispondente corrente che attraversa anche arti figurative e letteratura, riporto pure una lettera  (per chi ha voglia di leggerla naturalmente, perché anche se un po’ ridotta, è lunghetta assai, ma è davvero una interessante analisi puntuale e necessaria) che Vittorio Bodini (poeta e studioso di eccelsa fama nato nel 1914,uno dei maggiori  interpreti e traduttori  della letteratura spagnola da Cervantes a Francisco de Quevedo, e autore di un’opera fondamentale  sul Barocco di Gòngora –Roma 1964)  gli inviò dopo aver visionato il film, pochissimi mesi prima della sua prematura morte avvenuta il 6 dicembre del 1970:

“Caro Carmelo,

tu mi chiedi perché la definizione di barocco abbia sempre da noi in Italia, almeno in certi settori della cultura, un valore dispregiativo. E infine se e in che modo e misura il tuo Don Giovanni possa considerarsi barocco.

Il valore dispregiativo, o quanto meno negativo, che suol darsi da noi al termine barocco, e a tutto ciò che è e appare manifestazione barocca, è una forma di imperdonabile arretratezza culturale. Essa è congiunta, alle radici, a quel pregiudizio classico che grava soprattutto su una cultura come la nostra che, avendo toccato il suo apice nell’età umanistico-rinascimentale, per una sorta di nazionalismo culturale, è riluttante ad ammettere che possano esistere forme d’arte scaturite da idee distinte o addirittura  opposte e le degrada  al livello di “contrastile” o di “extrastile” (Croce), come se il loro  manifestarsi non potesse essere altro che un tralignamento, un errore rispetto all’unico stile degno di tale nome, e cioè il classico.

Ma il barocco è la grande alternativa  al mondo classico; esso “afferma il valore autonomo della vita intensiva dell’anima di fronte alla considerazione razionale” (Strich); rinunziando perciò alla ormai preordinata armonia del Rinascimento si rifugia in un angolo, a dare ascolto alla propria mancanza di certezze e alla conseguente angoscia, cosicché quello che dall’esterno può apparire semplicemente caotico disordine è al contrario una ricerca che mira a dar corpo al demone interiore.

Parlo non per caso del barocco come di una condizione presente del nostro spirito. Spiriti più avvertiti e sensibili hanno sentito in ogni parte d’Europa la profonda esigenza di rivalutare il concetto di barocco, e ciò è potuto accadere perché il Novecento non ha mancato di riconoscere in sé una curiosa simpatia, un intimo oscuro legame con il Seicento, che costituirebbe dunque una sorta di dimensione storica, di retroterra del Novecento. E’ ciò che Oreste Macrì chiama il sentimento e l’idea della contemporaneità fra arte barocca e arte novecentesca, mettendo in guardia contro i pericoli con essa connessi: “Sta all’intelligenza e alla finezza del critico reperire un limite differenziale, e ciascuno ha sperimentato i trabocchetti e i rischi delle false analogie tra barocco e novecento, non ultimi quelli inerenti alla qualità dell’infernale e del mostruoso, di soluzione e destino talora antitetici: il barocco ostinatamente, fino in fondo, formale; il novecento esteticamente sincretistico e non di rado informale, iconoclasta, surreale… Comunque, non sembra esserci umanamente altra via, se non quella della contemporaneità se si vuole fondare una categoria storico-letteraria.” Vi sono storici che vedono addirittura tutta la storia dell’arte e delle lettere come un alternarsi incessante nel tempo di forme barocche e di forme classiche (D’Ors); per limitarsi ad epoche meglio controllabili, si osserverebbero le coppie gotico e rinascimento, barocco e neoclassico, romanticismo e positivismo, cui seguirebbe quello che, in mancanza di un termine convenuto, si potrebbe chiamare il neo-barocco (o il decadentismo) del Novecento. Vedremo col classico il trionfo dell’Ordine, col barocco quello della Rivolta, della quale il Novecento toccherebbe a mio avviso le punte estreme, dal decadentismo vero e proprio al surrealismo e all’esistenzialismo, da Proust a Joyce, da Pirandello a Kafka. Cito disordinatamente per dare un rapido panorama della Rivolta novecentesca.

Ma per tornare al barocco storico, rivalutato da noi (ma con quanto ritardo!) nell’opera barocca del Caravaggio, in quella del Bernini, del Borromini, avrebbe dovuto esser chiaro  che la rivoluzione da essi portata nelle arti dello spazio – le strutture simmetriche, le linee spezzate, il policentrismo, la novità degli scorci, la preminenza dell’ombra sulla luce, il dinamismo (…) erano tutti caratteri armonicamente e organicamente convergenti di una poetica corrispondente  a una nuova maniera di intendere il mondo e la vita. E che non era possibile negarlo senza negare la loro validità. A meno che non si fosse voluto ricorrere all’assurda scappatoia del Croce, il quale diceva che Gòngora quand’era poeta non era barocco e quando era barocco non era poeta. Eppure questi artisti portano nella loro opera un così lucido messaggio della nuova estetica, frutto delle nuove istanze, dei nuovi fermenti del tempo, che addirittura – per il principio della circolarità dei linguaggi artistici – vengono assunti in Francia (Raymond, Rousset) e in Spagna (Dàmaso Alonso, Valbuena Prat) come parametri per intendere delle opere d’arte non figurative: quelle delle rispettive letterature del secolo XVII. E io stesso su questa linea di ricerche ho proposto un  parallelo fra il bicentrismo del personaggi del Don Chisciotte con l’ellissi berniniana di Piazza San Pietro.

Tale superamento fra la ristretta frontiera nazionale (il barocco è una corrente sorprendentemente europea), tali scambi illuminati fra opera d’arte o opere letterarie, per una errata diffidenza verso la comparativistica, non sono mai stati compiuti dai nostri storici e critici letterari, e quando questi son costretti a giustificare la loro sordità rispetto al secolo XVII tirano fuori la scusa pietosa del Marino. Ma il Marino non è un poeta e soprattutto non è barocco, e neanche un manierista. (…) La fama preponderante , e quasi esclusiva, del Marino poeta, si direbbe allora che sia stata inventata dalla critica proprio per poter denigrare il barocco. Ma non è qui il grande barocco letterario. Il nostro barocco letterario si chiama (col Galilei, che vi sta di pieno diritti!) Cervantes del Don Chisciotte, Gòngora delle Soledades e del Polifemo, si chiama Quevedo lirico e Quevedo dei Suenos  e del Buscòn, e tutto il teatro da Lope de Vega a Calderòn (soprattutto della Vida es sueño). Si chiama inoltre Baltasar Gràcian, teorico delle nuove poetiche (Agudeza y arte de ingenio), così come Lope lo era stato del nuovo teatro. Questa è l’organica risposta del barocco letterario europeo e mediterraneo al nostro barocco architettonico, scultorio e pittorico (e scientifico), a un medesimo estremo livello di tensione, di dignità e di cosciente originalità.

Se ora tu mi chiedi se il tuo Don Giovanni è un’opera barocca, rispondo di sì, nel senso più positivo che si deve dare al giudizio, a dispetto di quanti (e non sono purtroppo solo i non addetti) adoperano questo termine con riserve o con sottintesi che fanno dubitare della loro cultura. Il Don Giovanni è un’opera autenticamente barocca, e forse ciò che scuote soprattutto gli spettatori, che loro malgrado hanno già ingerito e accettato altri testi più scaltramente o più timidamente barocchi senza protestare, è proprio l’esemplare rigore che la regge a renderla tale. Io credo che  Gòngara (o Calderòn, o Graciàn), se fossero piovuti non so come  nella sala di proiezione, avrebbero riconosciuto e applaudito (nonostante gli inevitabili adattamenti dovuti ai mutamenti dei tempi e alla novità dello strumento tecnico) il sapiente uso di due simboli convergenti e dialettici che affascinarono la fantasia dei loro più avvertiti contemporanei: i simboli che Jean Rousset battezzò coi nomi i Circe e del pavone: la metamorfosi e l’ostentazione, il movimento e la decorazione, dove il secondo termine della coppia, che pare in sé negativo, acquista rilievo e positività nel modo in cui si presenta in intimo connubio coi tempi del mutamento, della incostanza, del trompe l’oeil, delle pompe funebri, della fugacità della vita e dell’instabilità del reale. Naturalmente chi non è addentro al problema ne vedrà solo l’aspetto esteriore, pavonesco, senza la labilità, il disperato senso del vuoto che è ad esso sotteso e che si cerca con esso di colmare. E questo mi pare il caso dei tuoi critici, che non vanno al di là delle apparenze; così come  noi ci accorgiamo che il Marino non è un vero barocco perché in lui vi è solo il Pavone senza la Circe.

Un curioso campione delle contraddizioni in cui cade chi oggi continua a parlare superficialmente di barocco l’ho osservato nell’articolo di un critico cinematografico, che ha scritto sul tuo Don Giovanni prima rifiutandolo aprioristicamente in quanto barocco, quindi spiegandolo e mettendone in rilievo positivamente proprio i motivi più barocchi.

Un altro aspetto in comune fra il tuo lavoro e il barocco storico (io mi limito a questa angolazione, non ignorando, ma volutamente accantonando gli aspetti moderni di esso, come l’ironia, il cinismo assoluto in contrasto col decorato barocco felliniano che ipotizza sia pure in modo ironico qualche notizia del trascendente) è il tipico rapporto esistente nella poesia barocca fra tema e linguaggio poetico: rapporto basato sulla più assoluta  libertà della seconda rispetto alla prima, con una possibilità di invenzione che non ha limiti, e si esprime in metafore e ellissi provocatorie e brillanti, i sontuosi mosaici  sensoriali delle Soledades e del Polifemo, poniamo, a cui fanno pensare le colorate metafore in movimento dei tuoi film: segnatamente Nostra Signora dei Turchi e il Don Giovanni, che però si comportano in modo distinto poiché nel primo il mondo della metafora cinematografica agisce con una così criptica allusività che pare voglia affermare la sua totale indipendenza dal tema, il quale però si evince dalla coerenza nella irridente (e tragica) denunzia del nulla; nell’altro, nel Don Giovanni, il vincolo si fa più evidente, senza tuttavia limitare l’autonomia del discorso poetico, cosicché il rapporto tra Ordo e Invenzione mi pare che sia sostanzialmente dello stesso tipo che possiamo osservare nel Calderòn della Vida es sueño.

Se Gòngora, se Borromini e gli altri avessero potuto vedere il tuo film non avrebbero mancato di accorgersi che il cinema è l’arte più barocca che ci sia perché in esso coi colori, con la materia, con la parola, spontaneamente si dà quel dinamismo che essi perseguirono in forma mediata nella metafora, nei contrasti di elementi, nei chiaroscuri e con mille altri accorgimenti propri dei loro strumento, con quella totale labilità e momentaneità delle immagini che corrono rapidamente incontro alla loro distruzione, come nella terzina di un famoso sonetto di Quevedo:

                        Ieri sparì, Domani non è giunto,

                        l’Oggi se ne va via senza fermarsi;

                        Sono un Fu, un Sarà, un E’ già spento.

Naturalmente tu sai bene che la maggiore dinamicità del mezzo tecnico non comporta automaticamente una superiorità nostra nei confronti di quei grandi misconosciuti maestri.

Su Carmelo Bene

Carmelo Bene (suo vero nome Carmelo Pompilio Realino Antonio Bene), pugliese di nascita, anche se fu registrato all’anagrafe da suo padre Umberto Bene il 3 di settembre del 1937, sembra che sia in effetti nato il 1° di settembre, e come tale viene di solito accreditato.
Una giovinezza la sua trascorsa fra le liturgie e i rituali della sua terra di Gesuiti e Scolopi, a stretto contatto col barocco (soprattutto quello architettonico)  tutti elementi questi che influenzeranno particolarmente il suo modo di intendere la vita e l’arte, fondamentali per altro per gettare le basi di una rivoluzione teatrale (e non solo) davvero copernicana centrata sulla “sospensione del tragico” e il rifiuto dell’essere nella storia.
Abbandonato – giovanissimo - il “barocco leccese” delle origini, si trasferirà a Roma per iscriversi prima a giurisprudenza e alla scuola di recitazione di Sharoff, per approdare poi ai corsi dell’Accademia di Arte drammatica  Silvio D’amico che abbandonerà però ben presto.
Mai comunque “accademico” in senso stretto, non rimarrà impaniato negli schemi pur elevati, ma classicheggianti che quella scuola voleva imporgli, e procederà da subito e in parallelo, nel suo “autonomo” percorso con l’ausilio di un registratore “Geloso”,  per portare così avanti in prima persona  e in totale solitudine,  lo studio e l’analisi della straordinaria polifonia della sua voce.
Debutterà sulla scena come attore (ovviamente però non sui palcoscenici ufficiali)  nel 1959  con uno stralunato, “fuori norma” Caligola di Albert Camus che ha fatto davvero storia, passando presto anche all’autonomia della regia.. Fra le cose più interessanti del periodo, da citare uno spettacolo concerto dedicato a Majakovskij con musiche “dal vivo” di Sylvano Bussotti e una rilettura scenica  del Dottor Jekyll e del Signor Hide da Stevenson (certamente il cinema e le sue apparizioni televisive dicono molto di lui e del suo istrionico talento, ma credo che non si possa davvero dire di conoscere veramente fino in fondo l’arte di Bene se non ci si è approcciati anche solo per una volta con le sue strepitose performances in palcoscenico, poiché a mio avviso è proprio il teatro  che era – e rimane – il suo prioritario territorio d’elezione).
Nel 1961, collaborò con i pittore Venditeli a uno spettacolo-cabaret, ma dette anche vita al suo primo strepitoso contatto con Pinocchio sul quale ritornerà ancora negli anni più maturi della sua evoluzione artistica (con il burattino collodiano aveva probabilmente una particolare affinità: si potrebbe addirittura dire che anche lui, proprio come Pinocchio, si è rifiutato alla crescita e come lui, si è smarrito e in fine liberato pure di se stesso).
In quegli anni favolosi per fermenti e intuizioni innovative, l’unico teatro delle cantine (che diventerà poi un fenomeno dilagante del teatro alternativo operante nella capitale), sarà proprio quello del  Divino Amore di Carmelo Bene (una breve esperienza di poco più di sei mesi comunque).
Il Teatro Laboratorio nel quale si esibiva con i su attori, verrà infatti chiuso di prepotenza e in forma definitiva dalle forze dell’ordine dopo Cristo ’63, a causa del pissing dell’apostolo Giovanni sull’Ambasciatore dell’Argentina e relativa consorte, proprio la sera della prima che diede origine a uno scandalo “inaudito” e “inaccettato” (ci sono altre versioni al riguardo, ma in ogni caso è “sicuramente” certo che qualcuno pisciò davvero e in diretta dal palcoscenico sulla platea)..
Risale a quegli anni la realizzazione  di una altro fondamentale spettacolo come La storia di Sawney Bean di Roberto Lerici, (1964)  recitato a fianco di Lydia Mancinelli e Luigi Mezzanotte,  “drammaticizzata” storia del cannibale scozzese nato nel 1370 (per inciso, è a questo personaggio e alla sua famiglia di antropofagi  che si ispira anche il film di Craven  - e successivo remake di Aja  - Le colline hanno gli occhi) e la prima edizione teatrale di Nostra Signora dei Turchi.
Nel 1966 inaugurerà il Beat’72 con la seconda edizione “rivisitata” proprio di tale opera, alla quale seguiranno un primo, personalissimo Amleto,  un altrettanto “divergente” Salvatore Giuliano,  un Faust da Goethe  e  Il Rosa e il Nero da Il Monaco di Lewis, definito dallo stesso Bene  come lo spettacolo-vita più rilevante  non solo per le sbalorditive innovazioni, ma anche come profezia  autobiografico-estetica di vita-spettacolo in profumo d’avvenire, e forse,quello cui si è davvero raggiunto il superamento d’ogni oltre che mi riguardi.
Poi, nel 1967, ci sarà il suo primo contatto con il cinema, di nuovo solo come attore, con Edipo Re  di Pasolini, un impegno importante che lo  che lo porterà lontano da Roma (in Marocco) per alcuni mesi.
Rientrato in Italia,  tornerà a lavorare utilizzando un palcoscenico  semi-abbandonato  e piuttosto fatiscente, che trasformerà  nel Teatro Carmelo Bene, e sarà proprio questo l’ultimo vero e proprio suo laboratorio di ricerca prima del cinema  e del passaggio al circuito ufficiale dei grandi teatri “borghesi” (i decenni ’70-’80).  Di quel periodo pieno di spunti e di “riflessioni critiche” ci restano le indimenticabili prove di un nuovo Amleto, dell’Edoardo II  di Marlowe e della Salomè di Wilde.
Nel 1968 rielaborerà poi con Siniscalchi un fino a quel momento anonimo e misconosciuto testo elisabettiano come Arden of Fevershan.
E’ comunque col cinema (un’esperienza breve ma intensa che si esaurisce nel giro di pochi anni, quelli compresi fra il ‘67 e il ’73) che raggiunge l’apice della popolarità e del successo anche internazionale con una serie di opere discutibili, ma folgoranti che vanno , dopo il primo approccio con Hermitage (un corto di 25 minuti che è già una riflessione sulla solitudine dell’artista e una prova generale di tutto ciò che verrà dopo, compresi gli scollamenti tra corpo e voce che già avevano animato il suo teatro e che lui applicherà con perfetta aderenza anche al grande schermo), da Nostra Signora dei Turchi a Un Amleto di meno, con le esperienze intermedie di Capricci, Don Giovanni e Salomè.
Inseritosi di prepotenza dentro il tessuto un po’ asfittico del teatro ufficiale, realizzerà spettacoli che avranno vasta eco e notevole successo anche di pubblico non esenti però da sporadiche contestazioni della parte più conservatrice degli spettatori paganti alle quali ha sempre risposto con ironica perspicacia e fluviale dialettica, dando origine a veri e propri happening di furibonda contrapposizione: Don Chisciotte, le piccole cose di pessimo gusto da Gozzano, La cena delle beffe  da Sem Benelli (1974) dove dividerà la scena con Gigi Proietti (nel cast anche un Carlo Monni alle prime armi), Romeo e Giulietta da Sakespeare (1976), S.A.D.E. (1977), Manfred da Byron (1979).
I successivi venti anni, saranno per Bene un vero e proprio ritorno alla sperimentazione in senso lato: in particolare, per quanto riguarda l’utilizzo della voce, un lavoro di scavo così inusualmente innovativo che spingerà la sua dimensione di attore verso confini impensabili quasi “impossibili” e soprattutto mai raggiunti prima, un percorso che lo porrà davvero all’avanguardia assoluta non solo per quel che concerne l’Italia, ma proprio come protagonista prioritario della scena contemporanea mondiale.
Disastrosa e fallimentare invece (ma solo sotto il profilo “umano”) la sua esperienza con la Biennale Teatro di Venezia fra incomprensioni e ripicche, alla direzione della quale era stato chiamato nel 1988 e che si concluderà abbastanza prematuramente, ma lasciando la traccia di performances davvero memorabili, che testimoniano l’inesauribile creatività di questo monumentale artista, come le letture di Majakovskij, di Leopardi e dei Canti orfici di Dino Campana. Uno spettacolo davvero definitivo, vera e propria pietra miliare del teatro d’ingegno d’ogni tempo sarà – nel 1994 – la sua messa in scena di Hamlet suite che prende spunto  dal testo di Laforgue, sul quale aggiunge, sottrae e “ricama” con l’aggiunta di musiche proprie e un effetto complessivo di mirabile, straziante stralunato impareggiabile lirismo.  La televisione lo vedrò spesso esibirsi in ardite letture poetiche e teatrali, mentre nel 1995 i Classici Bompiani pubblicheranno la  sua “Opera omnia, seguita, nel 2000, dal poemetto Il mal de’ fiori.
Sofferente di cuore e con più di un by-pass a tentare di preservarlo,la morte lo coglierà  prematuramente nel 2002 lasciando il vuoto incolmabile di una perdita che ci ha privato definitivamente del suo inestimabile talento

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