Regia di Anders Østergaard vedi scheda film
Il geniale e criptico Guy Debord di sicuro non pensava a Burma VJ scrivendo La società dello spettacolo. L’elaborata, profetica, implacabile analisi di 43 anni fa del filosofo-regista, però, si specchia in questo documentario che riassume in sé contraddizioni etiche ed estetiche dei nostri tempi. Se quella società dello spettacolo trasformava i lavoratori in consumatori (e non solo), quella attuale rende, inoltre, le ingiustizie reali e pubbliche solo se (tele)visibili. La Birmania dei Monaci e della Rivoluzione Zafferano del 2007 è esistita solo perché le immagini della repressione della stessa sono rimbalzate sui maggiori network mondiali, così come l’Iran e la Rivoluzione Verde passano per l’atrocità della morte e dello sguardo incredulo e disperato di Neda in mondovisione. E Burma VJ è il gemello del documentario Green Days di Hana Makhmalbaf (classe 1988): lo insegnano le guerre africane, l’indignazione planetaria arriva fin dove le stragi del potere e dell’odio hanno spettatori. In meno di un’ora Anders Østergaard (nella foto sopra) ci racconta l’incoscente e ingenuo coraggio di Joshua, un videoreporter di DVB (“Democratic Voice of Burma“). Nato, cresciuto e vissuto nell’indifferenza di un regime violentemente ottuso (e viceversa) e del mondo intero, viene sovrastato dalla potenza delle immagini che raccoglie, e dalla loro diffusione. Ricorda i giorni della Primavera Birmana del 1988, rimpiange la Nobel Aung San Suu Kyi, il piccolo lavoro di uno scandinavo curioso di come l’immagine possa essere usata nell’ultimo confine dell’autoritarismo, nel luogo più inospitale per un giornalista, diventa il candidato all’Oscar, un documento necessario e, soprattutto, imprevedibilmente possibile. E così il film si trasforma in quanto di più bello potesse volere il regista, troppo antropologo e paternalista. Lo stile incerto, il montaggio semplice come le parole del protagonista, sono, come l’acerbo lavoro della piccola Makhmalbaf, naïf ma incisivi. Nei replay della morte del reporter giapponese c’è lo Stone di JFK. Joshua è un novello Zapruder. Scusate se è poco.
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