Regia di Raoul Ruiz vedi scheda film
Vedere l’invisibile: una sfida sovrumana, che è accessibile solo all’artista. Come Sir Paul, lo scrittore che ha perso gli occhi in un incidente stradale. E come Hans Holbein il Giovane, che, nel suo dipinto Gli ambasciatori, ha inserito, come simbolico messaggio in codice, l’immagine anamorfa di un cranio, riconoscibile solo osservando la tela da una determinata angolazione. Il romanzo di Gilbert Adair fornisce a Raoul Ruiz l’occasione per parlare, in forma narrativa e cinematografica, del dramma di vivere una realtà a cui non si ha accesso, o che si è costretti a mantenere segreta. Il protagonista della storia conduce un’esistenza agiata ma priva di libertà, perché confinata tra le mura della sua sontuosa villa, e limitata alle poche stanze di cui ha imparato a memoria le planimetrie. La sua cecità lo ha lasciato prigioniero delle sue cupe ossessioni, mai rischiarate dall’evidenza del giorno, e quindi eternamente avvolte nella tenebrosa atmosfera di un incubo. Per questo motivo desidera che le lampade restino accese, e vuole conservare, con l’inutile gesto di aggiustarsi la cravatta davanti a uno specchio, l’assurda illusione di potersi guardare in volto. Per scrivere si deve affidare all’aiuto di Jane, una giovane donna che assume in pianta stabile, presso la sua abitazione, perché faccia da amanuense al libro delle sue memorie. Tra loro nasce una confidenza che si esprime unicamente a voce: i due personaggi sono uno accanto all’altro, ma comunicano a distanza, dalle opposte sponde dell’universo – la luce e il buio, la mente e i sensi - tra le quali non è possibile il contatto fisico, né alcun altro uso del linguaggio del corpo. Il rapporto resta profondo ed equilibrato finché è unicamente la parola, con tutte le sue minute articolazioni e sfumature, a fare da ponte tra l’uomo e la sua assistente. È, infatti, richiesta una precisione letteraria per descrivere i pensieri, le percezioni e i sentimenti in maniera esclusivamente verbale. La simmetria viene infranta nel momento in cui Jane decide di inserire, nel proprio comportamento, elementi che esulano dal contratto stipulato con Paul, e che, soprattutto, rimangono fuori da quel regolare scambio di informazioni. L’armonia cede il passo ad un grottesco sbilanciamento, che espande in maniera cinica e selvaggia il territorio in cui Jane si muove in tutta libertà, sottraendo, poco a poco, dignità e potere a Paul, il quale non può rendersi conto dei quadri capovolti o spostati, dei libri gettati nel caminetto, degli arredi smontati. L’uomo finisce per aggirarsi come un fantasma in un regno che, a sua insaputa, ha cessato di essere suo, mentre la fiducia da lui riposta in Jane si trasforma in una compassionevole forma di amorosa ingenuità. La situazione che, gradualmente, ma inesorabilmente, si viene a creare intorno a lui, è la rappresentazione teatrale e metaforica del tradimento, che è un inferno costruito alle nostre spalle, destinato a rivelarsi a noi solo quando ormai è troppo tardi. È, per definizione, un inganno che si mantiene a lungo invisibile, e soltanto così può preparare con diabolico scrupolo il suo potenziale distruttivo. L’invisibilità è la necessaria premessa a ciò che è destinato a non lasciarci scampo: come la morte cripticamente prefigurata nel quadro di Holbein, e, più in generale, ogni terribile verità che sfugge al controllo della ragione, e, imboccando tortuosi tunnel sotterranei, cerca, subdolamente, di farsi strada verso la luce. A Closed Book segue questo tragico percorso nello sviluppo della sua veste esteriore, inizialmente improntata ad una squisita perfezione formale e poi sempre più crivellata di inquietanti reticenze e malvagie allusioni. Il capolavoro si sfrangia, lasciandosi aggredire dalla volgarità, di cui diventa, con impercettibile gradualità, la vittima nobile e, in quanto tale, totalmente indifesa.
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