Regia di Gabriele Salvatores vedi scheda film
Storia del narratore delle storie di otto personaggi alla ricerca d’autore. Tra Pirandello, Charlie Kaufman e Spike Jonze, Salvatores mette sul proscenio la commedia della vita in corso di scrittura di due famiglie di personaggi fantastici che prendono materialmente corpo nel momento in cui il narratore comincia a raccontarne le vicende entrando fisicamente nelle loro vite. O è il contrario? Happy Family è una deliziosa commedia di impianto dichiaratamente teatrale, visto l’inizio con il sipario che si apre sull’ipotetico palco della vita, ondeggiante tra la realtà della messa in scena e la fantasia della sua scrittura in cui il tema della paura d’amare fa da labile collante tra i vari atti in cui è diviso il film.
Simon & Garfunkel arpeggiano un tema proveniente da un passato remoto, due adolescenti disfunzionali vorrebbero sposarsi, le famiglie si incontrano nella leggerezza onirica del miglior Wes Anderson dei Tenenbaum, gli attori si presentano guardando in macchina e a comando mettono in scena i loro personaggi, poi si fermano e interagiscono con chi ne sta scrivendo le emozioni, i fatti, le paturnie. Derive surreali o smaccatamente comiche completano il quadro di destrutturazione narrativa che è insieme cifra stilistica e espediente di metacinema leggero e sorprendente.
Dopo le cupezze noir degli ultimi lavori si Salvatores in Happy Family stupiscono i colori. Ogni scena è un quadro di elegante cromatismo pop stilizzato e innaturale, giocato tutto sulla predominanza dei colori primari e dalla fotografia luminosa che permea tutta l’inquadratura di un vago senso onirico-plastico allontanando la tentazione del verosimile per abbracciare quello della finzione dichiarata. L’artificio è ricercato e delegato ad inquadrature sghembe, split screen, primi piani deformanti e una costante ricerca della simmetria dell’inquadratura tra i soggetti e l’ambiente che abitano quasi a voler trovare l’ordine nella storia di piccole nevrosi, disillusioni e amarezza che le due famiglie si portano dietro. Sempre col sorriso però, se i problemi dei personaggi sono quelli del loro creatore e quest’ultimo è un Fabio de Luigi liquido e surreale nella sua vis comica, allora è certo che il film sarà assolutamente gradevole. Il grande tema della vita, la paura della vita stessa e la conseguente rinuncia all’amore, viene affrontato con delicatezza e senza alcuna pretesa di retorica: Diego Abatantuono e le sue canne, un distinto Fabrizio Bentivoglio, Margherita Buy e Carla Signoris affrontano la scena con la leggera consapevolezza dell’immaterialità della fine in quanto personaggi ma ben decisi ad averne una come conclusione degna di un’esistenza che valga la pena di essere vissuta. E’ una bella storia molto divertente e molto lontana dalla commedia percoreccia italiana delle feste comandate, si sfalda in mille rivoli e sottotrame che si perdono al vento di una narrazione sperimentale non convenzionale ma conserva l’idea potente dell’amore per il cinema e della sua potenza espressiva, quell’amore che il nostro cinema un po’ ha perso.
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