Regia di Michael Winterbottom vedi scheda film
Tratto dall'omonimo romanzo del leggendario scrittore pulp Jim Thompson, pubblicato, per la prima volta nel 1952, The Killer Inside Me racconta la storia del vicesceriffo, Lou Ford, di una piccola città del Texas. Questi è un sadico, unpo psicopatico ed un assassino egli stesso. A ciò si aggiunge che ha una serie di problemi, naturalmente nel dover far rispettare la legge (e nel rispettarla egli stesso), ma anche con le donne. Vive l’incubo di chi, nonostante il suo lavoro, vede, giorno per giorno, crescere il numero delle vittime per omicidio nel suo territorio di pertinenza. Non tarderà molto che il sospetto nei suoi confronti lo lascerà a corto di alibi. Anche se gli stessi investigatori, che gli stanno dando la caccia, anch'essi nascondono un segreto.
Michael Winterbottom, è un regista altalenante, capace sia di buoni lavori (Benvenuti a Sarajevo, 1997) ma anche pessimi (Genova, 2008), in mezzo, poi, ci sono anche quelli mediocri come questo, in programmazione in questi giorni.
Rispetto alla bellezza e all’interesse del romanzo, di quelli che non lascia indifferenti, la trasposizione cinematografica inquieta per la funzionalità affidata alla mente criminale per ostentare oltremodo scene di violenza, il più delle volte gratuite: le menomazioni soprattutto, senza tralasciare il sesso e finanche lo stupro. Appare chiara la volontà di scandalizzare lo spettatore e non quella di condurlo a quelle stesse motivazioni cui accompagnava il lettore, il romanzo. Se il tutto ha come capri espiatori le bellezze di Jessica Alba, Kate Hudson e Casey Affleck, è possibile che ci si possa anche confrontare con lo spreco anche produttivo, piuttosto inutile. Risultano vani i tentativi di Winterbotton di tentare le vie delle menti allucinate di David Fincher, tantomeno il pulp alla Tarantino. Nonostante i promettenti titoli di testa fumettistici e colonna sonora a base di pezzi country-jazz, il regista inglese si perde lungo il cammino, perdendo di credibilità per quel che riguarda proprio la struttura della messa in scena, cedendo, impotente, alla potenza di un racconto da cui ci saremmo aspettati molto di più. Anche senza l’eccessiva e straripante dimensione kitch. “Un'erbaccia è semplicemente un fiore non al posto giusto”, frase pronunciata nel film, potrebbe risultare molto utile per commentare questo film che, nelle mani di Tarantino, per assurdo, sarebbe risultato molto meno violento. Ma senz’altro avrebbe guadagnato in quel fascino disperato di uno dei più grandi costruttori di devastanti parabole noir. Affidato, invece, ad un sopravvalutato cineasta festivaliero.
Giancarlo Visitilli
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