Regia di Rafi Pitts vedi scheda film
Alì Alavi ( lo interpreta lo stesso regista, il quarantatreenne iraniano Pitts) fuggendo in auto, inseguito da una pattuglia della polizia di Stato, percorre le strade di montagna a nord di Teheran avvolte dalla nebbia. Ed è in quella nebbia che si è svolto o si svolgerà quella parte del dramma che lo spettatore non vede in “The Hunter”: la stessa Teheran cela i suoi arcani dietro le apparenze di una metropoli moderna caratterizzata da gigantesche arterie stradali trafficate e da enormi condomini popolari costruiti sotto i pilastri dei cavalcavia; e nessuno degli attori della vicenda, a cominciare dal misterioso e laconico protagonista, rivela i moventi della propria violenza. Ad Alì la polizia sparando contro i dimostranti in una manifestazione ha ucciso per errore la moglie ( Mirra Hajjar) e la figlia bambina ( Saba Yaghoobi) e lui per vendicarsi spara dall’alto di una collina contro due poliziotti presi a caso; ma la sua storia inizia molto prima, da quando è stato in prigione. Cosa lo ha spinto ad infrangere la legge? E’ un comune delinquente o si è opposto alla teocrazia? Uscito di prigione, lavora come guardiano notturno e quando è libero passa gran parte del suo tempo sulle montagne con il fucile da caccia. Perché continua a soffrire, perché la sua vita familiare, nonostante appaia idilliaca, è connotata da uno spaventoso silenzio? E chi sono davvero i due che gli danno la caccia e lo catturano, quando lui, braccato, fugge in montagna? Indossano la divisa, sono colleghi degli uomini assassinati da Alì, eppure non hanno né spirito d’appartenenza né senso del dovere, anzi nutrono un odio profondo l’uno per l’altro e i motivi non sono certo chiariti dalle parole ambigue che si rivolgono l’un l’altro e al prigioniero.
Evidente l’intento dell’autore, qui anche sceneggiatore, di contrapporsi al cinema iraniano d’ispirazione neorealista più noto: “The Hunter” è un film d’atmosfere imperniato sull’alienazione psicologica conseguente alla condizione politica del suo Paese, a cui rimanda nei titoli di testa la fotografia manifesto del 1980 dei pasdaran in moto. Pitts ha scelto di evidenziare i sintomi del male, lasciando nell’ombra le cause profonde: volti anonimi scolpiti dal rancore e dal dolore percorrono il bosco; non troveranno mai una vita d’uscita dall’intrico dei sentieri, l’inverno brumoso non avrà mai fine.
Preferendo l’evocazione simbolica alla specificità della situazione ed eguagliando Teheran alla classica giungla urbana del cinema statunitense però la prospettiva si amplia a tal punto da diventare indefinita: il totalitarismo iraniano o il capitalismo selvaggio d’Occidente sono la perfetta concretizzazione dell’homo homini lupus oppure al contrario portano alle luce gli aspetti deteriori e più feroci in persone come Ali che altrimenti vivrebbero un’esistenza pacifica in famiglia? Se non si dà una risposta, le rivoluzioni, pacifiche o meno, sono la medesima beffa…
Per confronti e percorsi culturali suggeriti dal film cfv mio blog: http://spettatore.ilcannocchiale.it/post/2662572.html
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