Regia di Rafi Pitts vedi scheda film
Il cinema iraniano incontra la solitudine nitida e delicatamente colorata di Edward Hopper, mentre omaggia il mondo bambino di Jafar Panahi (la scuola della piccola Saba è la stessa di Mina in Ayneh), gli ambienti silvestri e rurali di Abbas Kiarostami, le ricerche disperate e silenziose di Amir Naderi. Intanto si occidentalizza accogliendo la figura del giustiziere, gli inseguimenti in auto, i poliziotti sfiduciati e critici nei confronti del sistema. Eppure il film di Rafi Pitts rimane integralmente fedele allo spirito della sua terra, in cui i significati profondi dell'esistenza restano sospesi al di sopra delle vicende quotidiane, mentre la banalità di queste ultime fa da filtro alla loro consistenza soffusa. A pendere sulla testa dei personaggi è sempre un'inesorabile condanna, accompagnata da un perché senza risposta: la circolarità del destino non offre alcuno scampo, e vanifica inevitabilmente ogni impresa umana. Perdersi equivale a finire nella trappola tesa all'uomo da una volontà superiore, che ci vuole fermi ad aspettare che la nostra vita si compia, che la nostra attesa si concluda con una rivelazione. Lo sbocco finale può essere tragico, oppure indefinitamente aperto su interrogativo senza risposta: la soluzione ci vede sempre ostaggi, e mai dominatori. Ali Alavi, il cacciatore, che imbraccia un fucile per vendicare le morti della moglie e della figlia, uccise dalla polizia durante una manifestazione, non è sostanzialmente diverso dai protagonisti di film come Marathon, Il palloncino bianco: ad accomunarli è l'adesione ad una missione personale e disperata, che appare tanto piccola quanto assurda sullo sfondo di un universo cinico e indifferente. La spinta viscerale diventa un'ossessione che isola dal mondo, una mania che oppone chi ne è portatore al resto dell'umanità. Il caos che, nelle opere degli autori citati, caratterizza la società iraniana, divisa tra gli affanni della modernità e i fanatismi religiosi, in questo film diventa un informe brusio, rappresentato dalla voce della radio e della televisione e dal rumore del traffico, da cui si staccano alcuni frammenti: i punti di vista di singoli individui (Ali, il poliziotto "buono" e quello "cattivo"), che, nella loro assoluta inconciliabilità, disegnano un quadro statico e sgranato, privo di organicità, sfuggente ed insapore. Questa mancanza di carattere può essere considerata un difetto, una debolezza artistica del film: oppure, forse, è proprio in questa indecisione che si nasconde la chiave di lettura di un'opera che si distanzia dalle polemiche, dalle prese di posizione, dagli attacchi diretti contro questo o quell'aspetto della poltica e del vivere civile e, per una volta, sfida la corrente mostrando il coraggio di tacere.
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