Regia di Rob Epstein, Jeffrey Friedman vedi scheda film
«Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude, strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia…». È l’incipit, poi diventato proverbiale, del poema che un concentrato Allen Ginsberg leggeva nel 1955 a un pubblico di San Francisco. Jeffrey Friedman e Rob Epstein, illustri cronisti della cultura omosessuale, iniziano il loro film nello stesso modo. Il loro Urlo ha il basso budget e gli ottimi crediti del miglior cinema indie: fotografia di Edward Lachman, score di Carter Burwell, produzione esecutiva di Gus Van Sant. Ma è anche, paradossalmente, insieme didattico, per come vuol sviscerare la genesi di Urlo, per capirlo. Il film si divide in ricostruzione del processo per oscenità (conclusosi con un’inaspettata vittoria in tribunale per l’editore Ferlinghetti), rappresentazione animata del poema – celebrazione quasi settantesca, a opera dell’illustratore Eric Drooker, dell’eros e del bebop, della sofferenza che emana dal corpo libero – e drammatizzazione di una lunga intervista a Ginsberg (James Franco, mimetico e impegnatissimo), con annessi flashback in bianco e nero sulla sua formazione di uomo e artista. Kerouac, Burroughs e Cassady sono figure intraviste di sfuggita; molto più spazio, e a diritto, va a Carl Solomon, l’amico con cui (insieme alla propria madre) lo scrittore divise l’esperienza, se pur più breve, del manicomio, e cui dedicò Howl. Opera spartiacque nella letteratura, apripista per tanti, e che al di là dell’etichetta («la Beat Generation non era un movimento, ma solo un gruppo di scrittori che voleva farsi pubblicare» dice Franco/Ginsberg) ha spianato la strada del costume e dell’arte. Non è biopic, ma monografia appassionata e colta, che con linguaggio chiaro e passo preciso, talvolta raggelato, mette in parallelo la questione dei diritti gay (e in generale la sessuofobia statunitense di 50 anni fa) e la libera creatività. Dal Sundance a Berlino, fino al Mix di Milano, esce da noi un mese prima che negli Usa. È cinema di nicchia e insieme civile. Da vedere, quindi.
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