Regia di Rob Epstein, Jeffrey Friedman vedi scheda film
Un urlo esplode improvviso. È un fragore necessario, una reazione istintiva e primigenia. Un bisogno urgente che nasce dalle viscere e, in cerca di una via d’uscita, si manifesta grezzo, contaminato e confuso in un vorticare di idee scomposte. Solo più tardi, dopo il tempo indispensabile alla sedimentazione, ci si può accostare al suo senso, cercando di interpretare, perdonare, comprendere.
Nessun “Urlo” è stato più forte e struggente di quello declamato da Allen Ginsberg. La sua poesia è un’opera complessa, una tra le maggiori esponenti del movimento letterario chiamato Beat generation, che traeva ispirazione da viaggi mentali ascetici e si evidenziava come un flusso di coscienza sincopato, come se seguisse le irregolarità ritmiche proprie del jazz. E gli strumenti a disposizione di Ginsberg prendevano le mosse da una chiusura e da un attorcigliamento sulla propria persona, nuda di fronte al mondo sconosciuto e apparentemente respingente che lo circondava. Barriere apparenti franano sotto il peso della consapevolezza (Allen fu aiutato da una serie di sedute psicanalitiche). Ma la personalità dell’autore rimase confusa e impaurita, la macchina da scrivere non poteva quindi che generare mostri, incubi e sconcezze lessicali.
Il film racconta della poesia “Urlo” e gira intorno a un’intervista nel quale l’inviato non si vede mai. Il colloquiare di James Franco (un Poeta pertinente) sembra più un soliloquio sull’orlo di un deliquio, una confessione psicoanalitica delle sue prime pulsioni omosessuali, di una vita vissuta tra fumi di marijuana, alcol e droghe generanti abbaglianti quadri fatti di cartoni animati, di frenetici passaggi di paesaggi, alternati in uno scartabellare di stati d’animo prima estatici poi tetri e profondamente riflessivi.
Il processo all’accusa di oscenità di “Howl and Other Poems” è un ottimo pretesto per affondare la lama a squarciare l’ipocrisia tutta a stelle e strisce degli anni ’50 e per riaffermare l’importanza della libertà di pensiero ed espressione, in un paese ancora troppo ancorato a un modello sociale imposto. Fondato su una serie di idoli (grandi industrie, grattacieli, supermercati, pubblicità, religioni) costruiti mirando a un’apparente felicità, lo Stato Unito d’America cede il passo alle parole di Ginsberg, il quale smonta questi totem, additandoli come un ammasso di inutilità percettive, di spaccature affettive. Mai tanta maniera di scrivere fu lungimirante. Quello a cui aspira l’autore, in un disperato bisogno di farsi ascoltare dall’umanità tutta, è un mondo costruito sulla fratellanza, sul riconoscimento del diverso, necessario a un quieto vivere che ancora oggi è assente.
Alternando bianco e nero a colore, immagini nitide ad altre sgranate, esplicativi e affascinanti disegni animati e montaggio incalzante che contribuisce alla forma fantastico/alienata, la pellicola resta una delle più belle uscite lo scorso anno. Con Gus Van Sant alla produzione esecutiva e Rob Epstein e Jeffrey Friedman alla regia (già realizzatori dell’ottimo “Lo schermo velato”), “Howl” è un piccolo prodigio cinematografico che, nonostante la veste di sceneggiato, scorre sotterraneo e ribelle, regalandoci una graditissima sorpresa proprio negli ultimi fotogrammi.
Durante la visione siamo partecipi di una insurrezione fortissima, di un annuncio fatto a nudo davanti a tutti, di turbamenti inconfessabili, eccitazioni sessuali, affetti, tendenze. Alla fine vediamo come una gigantesca pietra sia stata lanciata nelle acque calme del lago del puritanesimo. Che rimane intontito, incredulo, ancora attaccato al significato singolo delle parole. Perché “non si può tradurre la poesia in prosa. Ecco perché si chiama poesia”.
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