Regia di Rob Epstein, Jeffrey Friedman vedi scheda film
I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving hysterical naked, dragging themselves through the negro streets at dawn looking for an angry fix… Sono i primi versi del poema Howl con i quali prende l’avvio anche la pellicola (tradotti in italiano suonano più o meno così: Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla follia, affamate isteriche nude, trascinarsi nei quartieri negri all’alba in cerca di un sollievo furioso…), parole di straordinaria presa emotiva che creano un immediato impatto empatico di trascinante intensità anche a chi ha poco dimestichezza con la poesia, soprattutto se “estrema” come questa, proprio per le immagini che la nostra mente immediatamente vi associa, così tragiche e crudeli, da “risuonarci” dentro fortemente amplificate e capaci di determinare persino un sottile disagio percettivo dovuto alla “rabbiosa sofferenza” che ci avvolge e che avvertiamo in tutta la sua prepotente dirompenza.
Qualcuno doveva prendersi prima o poi l’onere e l’impegno di ricordarsi (e ricordarci) Allen Ginsberg, raccontandoci – al di là degli studi e dei saggi - chi era l’uomo e il poeta, l’importanza che ha avuto la sua opera non solo nel mutamento culturale, ma anche di costume, e soprattutto nella “percezione” delle cose e della trasformazione evolutiva di quello che si suol definire “il comune senso del pudore”! Questo assurdo “vuoto” divulgativo doveva essere colmato!
Hanno per fortuna provveduto a faro con straordinario impegno e dedizione, Rob Epstein e Jeffrey Friedman, da sempre schierati contro le discriminazioni sessuali, impegnati in prima persona nella lotta per i diritti degli omosessuali, e autori di titoli importanti come Paragraph 175 e The celluloid closed che riproponeva in immagini ciò che Vito Russo aveva più ampiamente raccontato con il suo fondamentale, imprescindibile saggio dallo stesso titolo (il rapporto fra cinema e omosessualità e il suo mutarsi nel tempo). “Revisionando” più di trecento film, americani e no, dall’epoca del muto alla data in cui l’opera fu concepita (1981, con un aggiornamento nel 1987 e “versione” cinematografica nel 1995) e recuperando anche i tagli della censura (quelli che era possibile ricostruire, ovviamente), individuando persino sequenze e inquadrature dalle quali il “problema” per quanto distorto o nascosto in qualche modo riesce comunque a venire fuori lo stesso anche se un po’ “messo in maschera”, Vito Russo “e gli altri”, ci hanno fatto conoscere così il lungo e periglioso cammino, ma anche la lotta della parte più progressista degli operatori cinematografici, per arrivare finalmente a trattare l’argomento con matura consapevolezza, passando da una disponibilità più conciliante degli albori, allo scontro sottile e sotterraneo, sfociato nelle dissimulazioni dei decenni successivi (soprattutto quelli che immediatamente precedono la seconda guerra mondiale) fino alle maldestre mistificazioni del dopoguerra con gli omosessuali sempre “cattivi” o ridicoli , spesso macchiette volutamente “caricaturali”, tanto “esasperate” e sopra le righe, da risultare un tantino grottesche. Un cinema “civile” e realisticamente concreto (che negli ultimi anni si è ulteriormente sviluppato trovando nuovo coraggio e consapevolezza) che finalmente – se vuole – ha la capacità di rifiutare il tabù del cliché per rappresentarci l’omosessualità non come una devianza, ma come una normale condizione diffusa e trasversale, tutt’altro che scandalosa, poiché riguarda e coinvolge persone vere e non contraffatte assolutamente “parificate” e quindi alla fine esattamente normali come tutte le altre (anche se purtroppo con molti meno diritti).
E i due registi hanno indubbiamente fatto la loro parte in questa direzione, non solo per ricordare una storia di soprusi e liberazione (tutt’altro che conclusa) ma per modificare i costumi e la “sensibilità” al problema, e in tale prospettiva Howl, un’opera di finzione ma basata su fatti realmente accaduti, è l’ultimo importante tassello di un percorso anche evolutivo dello stile e dei contenuti.
In questa loro recente fatica comunque, c’è anche lo zampino – e si avverte - di Gus Van Sant (fra i produttori esecutivi della pellicola) già autore dello straordinario Milk (va ricordato al riguardo che Epstein aveva proprio realizzato in precedenza un documentario dal titolo The times of Harvey Milk e non è quindi certamente un caso questo “coinvolgimento” di reciprocità e di “attinenze”), che ha indubbiamente contribuito a “suggerire” oltre la felice scelta del protagonista proprio da lui fortemente caldeggiata, anche il taglio speciale da dare a un film che permette ai due registi di abbandonare per la prima volta la strada del documentario puro per seguirne una meno lineare ma ugualmente significativa e importante, che “ricostruisce” (magnificamente) le cose che racconta senza documentarle “in diretta” attraverso il recupero di immagini di repertorio, spezzoni di pellicola o intervistando i “superstiti”, come era accaduto nelle precedenti opere.
In questo Howl ad ogni modo, l’omosessualità dello scrittore rimane centrale, ma non rappresenta l’argomento predominante della storia, che è invece il poema e il suo “scandaloso” incedere nel panorama letterario del ‘900, a suo tempo messo sotto accusa per la sua presunta oscenità, il che coinvolge inevitabilmente anche altri aspetti strettamente connessi con la morale dell’epoca, ma diventa anche, paradossalmente un percorso “didattico” e formativo di conoscenza , per come riesce a sviscerarci e renderci palese la genesi della sua scrittura, e a farcene comprendere l’importanza ed il valore.
Non è un biopic dunque, ma una monografia colta e appassionata che grazie a un linguaggio chiaro, e soprattutto a una coerente forma talvolta un po’ raggelata ma efficace, crea un parallelo evidente fra la questione dei diritti gay con la libera creatività dell’artista (sottolineando in particolare la profonda, generale sessuofobia puritana statunitense di 50 anni fa). E’ proprio per questo non secondario aspetto che diventa un altro importante tassello in direzione dell’ accettazione di una “presunta” e troppo a lungo osteggiata diversità che è solo a guardar bene una particolare preferenza sessuale che dovrebbe riguardare esclusivamente gli interessati, e con la quale è ormai necessario fare i conti “a viso aperto”, visto che appartiene davvero alla quotidianità della vita, una realtà che si sta progressivamente integrando e che è ormai difficile “rifiutare” a prescindere, visto come sta procedendo (ed evolvendosi) il mondo, e con esso anche il cinema e la letteratura. Lo stesso David Leavitt, scrittore gay dichiarato e curatore di varie antologie di racconti omosessuali, recentemente interrogato su quale sia la direzione che sta attualmente prendendo la “cultura” (cinema, letteratura, ecc.) specializzata del settore, ha dato una risposta abbastanza eloquente sulla sua graduale normalizzazione in corso: non più sensi di colpa, malattia e solitudine sentimentale, non più intrecci cupi e sofferti, ma storie di affettuose relazioni perfettamente conformizzate, così quotidiane e “consuete” che possono davvero parlare a tutti senza più sollecitare pruriginosi scompigli.
E in fondo anche la vita sentimentale di Allen Ginsberg così trasgressivo con le parole, e portatore di esperienze di vita fortemente traumatizzanti, è stata alla fine totalmente omologata, visto che il suo rapporto sentimentale con Peter Orlovsky prioritariamente monogamo anche se non completamente “esclusivo”, è stato quello che lo ha accompagnato interrottamente per tutta la sua esistenza (la foto e la conseguente sequenza in cui Aaron Tveit e James Franco riproducono fedelmente la posa di lui e Ginsberg , schiena contro schiena seduti su una panchina al momento iniziale del loro lunghissimo sodalizio amoroso, ne sono la chiara conferma, poetica e appassionata).
Oltre che il racconto di una vicenda artistica e personale dunque, il film intende diventare anche la ricostruzione attendibile di un’epoca, e soprattutto del clima culturale e politico dell’era Eisenhower, e in questo, è indubbio che l’espressione artistica riesce meglio di ogni altra cosa a mettere in evidenza gli “squilibri”, perché è capace di mostrarci come proprio le modalità con cui una società si rapporta per esempio a un problema universale ma osteggiato, quasi negato - l’omosessualità per l’appunto - siano sintomatiche del livello di malessere e di crisi in cui essa stessa versa. Ed è ciò che accadde appunto nel caso di Howl quando le tendenze sessuali di Ginsberg furono usate come capro espiatorio da una società bisognosa di esorcizzare le paure più profonde generate dalla Guerra Fredda (e qui ci si potrebbe ricollegare persino alla lezione che tiene il professor Falconer utilizzando Huxley in A Single Man, libro e film), perché quella degli anni cinquanta, era davvero un’epoca di grande conformismo e repressione politica e sessuale, ma anche di terrori profondi e viscerali, e soltanto qualche tempo dopo ha iniziato a nascere e ad affermarsi la controcultura che spaventava tanto i benpensanti, proprio partendo – si potrebbe dire – da questo grido che inutilmente qualcuno tentò di soffocare.
La struttura narrativa dell’opera presenta, come ho già accennato, tratti di assoluta discontinuità rispetto ai precedenti lavori dei due autori e si sviluppa anziché linearmente, su tre piani distinti: quello processuale, la lettura del poema, e la “riproduzione” virtuale di una intervista fatta allo stesso Ginsberg.
L’andamento processuale è chiaramente l’elemento più concreto, ma anche il necessario corollario - a suo modo “autentico” pur se “ricostruito” e in qualche modo “artefatto” - per testimoniare e rendere palese una specifica realtà documentale, indispensabile per collocare meglio i fatti e rendere più esplicita la carica “devastantemente distruttiva” di un poema estremo come quello di Ginsberg. Rappresenta però anche il lato meno “creativo” e più ovvio del percorso, mentre è invece attraverso lo sviluppo degli altri due versanti che a mio avviso l’opera diventa sublime, nel reading dei versi fedelmente riprodotto (la voce di Franco recuperabile dalla versione originale, pare “modellarsi” proprio su quella del poeta, ma senza mai diventare meramente imitativa. L’interprete ha infatti ripetutamente ascoltato per fare sue cadenze, pause e inflessioni, le registrazioni “vocali” dello stesso Ginsberg in occasione della sua prima lettura del poema fatta nel 1955 alla Six Gallery di San Francisco, ma totalmente concentrato sul significato delle parole, più che sulla fonetica, per interiorizzarle meglio, renderle quasi “fisiche” e trarne tutta la musicalità come poi è riuscito benissimo a fare: non a caso Franco oltre ad essere un attore di indubbio spessore – e la stagione appena conclusa ce ne ha dato adeguate conferme – è anche un esperto di letteratura, e a sua volta un poeta culturalmente vicino al beat). Una declamazione la sua, quasi sempre sommessa, ma che diventa prepotente come un urlo straziato e straziante, tutt’altro che conformista, nel “vomitarci” in faccia e nelle orecchie parole che hanno turbato (e riescono a farlo anche adesso) i sonni del perbenismo americano (e non solo), che è il primo elemento di forte presa empatica dell’opera, anche se la parte davvero più emozionante, e pesino più “inventiva” resta certamente quella che si concretizza attraverso l’evidenziazione grafica dei “versi” del poema , vero “trip” lisergico visivamente riprodotto con appassionato e visionario lirismo.
Carl Solomon I’m with you in Rockland, were you’re madder than I am…
Oscenità, droga, devianza sessuale: ecco le accuse che portarono al clamoroso processo contro Howl and others poems (o meglio contro l’editore Lawrence Ferlinghetti “reo” di aver pubblicato quegli indecorosi versi).
L’ossatura di Howl, efficace, virtuosistica esercitazione stilistica proprio per i vari piani sui quali riesce a sviluppare visivamente e lessicalmente il discorso, è dunque proprio il processo, ed è infatti qui che si esemplifica la dialettica stringente dell’inflessibile e beffardo pubblico ministero (interpretato con la consueta perspicacia da un David Strathairn in grande spolvero) che tenta di dimostrare la nullità letteraria del testo e del suo autore, oltre che la sua inaccettabile turpitudine, mentre la difesa al contrario (John Hamm è il brillante avvocato difensore) fa appello a un ampio movimento intellettuale che stava proprio in quegli anni modificando la percezione stessa di opera d’arte, per riconoscerne il valore e assolverlo. Qui fanno un’apparizione in veste di testimoni (fra i pro e i contro) attori del calibro di Jeff Daniels, Mary-Louise Parker, Treat Williams e Alessandro Nivola, mentre a Bob Balaban è assegnato il ruolo del giudice conservatore ma non abbastanza “reazionario” da non poter dar ragione a Howl, che “negherà” alla fine la censura. Su tutti però spicca e giganteggia - e lo ripeto ancora una volta - James Franco (ascoltare i suoi virtuosismi vocali, è davvero puro godimento) che ci rappresenta un Ginsberg ben più affascinante dell’originale, ma impegnato con onestà, dedizione ed umiltà, a far dimenticare prima di tutto la sua avvenenza, in nome della verità umana e psicologica del personaggio che privilegia sempre e comunque. Specialmente nella lunga e sofferta confessione davanti alla macchina da presa, che i registi hanno filmato sulla falsariga di una vera intervista-verità (usando testi di autentiche dichiarazioni dello scrittore americano morto a New York nel 1997) raggiunge vertici di intensa e umana partecipazione emotiva che lo consacrano attore di rara potenza espressiva.
Un film con diversi piani e chiavi di lettura, come abbiamo visto, vero e proprio monumento che “celebra” una personalità fondamentale della cultura del ‘900, ma al tempo stesso anche romanzo di formazione gay (il difficile rapporto con il padre, la malattia mentale della madre, la scoperta del sesso e della letteratura, gli incontri importanti che cambiano la vita) e nitida fotografia di un momento germinale di valori come il rifiuto del militarismo e del consumismo, tutt’ora cruciali anche se largamente disattesi, e come tale colmo di grandi speranze e aspettative “rivoluzionarie” che facevano immaginare un imminente cambiamento che non è poi avvenuto come pensavamo invece dovesse succedere (e siamo ancora qui a leccarci le ferite). Del resto guardando le belle immagini di Epstein e Friedman, si ha spesso la sensazione che sia trascorso molto più di mezzo secolo da quelle battaglie, e che si stia vivendo ormai in un altro mondo.
L’immagine digitale permette di ricomporre in un rigoroso ordine di intenti, i diversi vettori temporali che attraversano la pellicola fondendoli fra loro con assoluto rigore ed omogeneità, con una variazione dei toni che spazia dalla realtà all’illusione un po’ immaginifica del sogno, mentre sono le parole scandite e ripetute di un poema destinato a diventare la Bibbia della Beat Generation e la bandiera della lotta per la libertà d’espressione in nome del primo emendamento, che graffiano ancora l’anima e scuotono la coscienza. L’urlo della controcultura, insomma osteggiato da una causa difficile, lunga, laboriosa e davvero celeberrima che ebbe un’ampia copertura mediatica per gli argomenti decisamente scottanti che trattava, così attrattivi, che l’aula era sempre gremita (e questo contribuì ad accrescere notevolmente la fama del poema, ma aiutò anche la divulgazione e l’affermazione della cosiddetta letteratura beat che esplose pubblicamente proprio grazie e a seguito del processo). Friedman – co-regista dell’opera -, ci ricorda infatti che Kerouac, Burroughs e tutti gli altri, riuscirono a pubblicare i loro lavori solo dopo la sentenza “assolutoria” di Howl e del suo editore.
L’urlo nasce dunque al chiuso e nel privato (la Beat Generation non era un movimento, ma solo un gruppo di scrittori che voleva farsi pubblicare dice Franco/Ginsberg). E nella genesi di Howl non c’è infatti quasi mai traccia di ambienti aperti: Ginsberg vive, ama e compone in stanze scalcinate e anguste, entro le quali è persino disagevole muoversi, sempre al riparo dagli sguardi, costantemente in fuga dall’indice puntato del moralismo del secondo dopoguerra americano che intendeva mantenerlo all’indice. Kerouac, Burroughs e Cassady, ci sono ovviamente, ma vengono intravisti solo di sfuggita; molto più spazio, e a buon diritto, viene riservato invece a Carl Solomon, l’amico con cui (insieme alla propria madre) lo scrittore divise l’esperienza, se pur più breve ma ugualmente terribile, del manicomio, e a cui dedicò il poema.
Alternando monologhi dello straordinario James Franco-Ginsberg e una fedele ricostruzione del processo a lunghe sequenze-trip a disegni animati dei versi del poema, si realizza così proprio la necessaria “frattura” della forma richiesta dalla potenza innovativa del poeta, che ne esce esaltata ed amplificata. Il tratto a volte rozzo e febbrile dell’ottimo disegnatore Eric Drooker (che aveva già trasferito i versi di Allen Ginsberg nel magnifico volume a fumetti Illuminated Poems – edizioni Avalon Publisching – ma anche creativo “inventore” delle copertine del New Yorker) che giustamente prevale quasi sempre rispetto alla precisione e alla cura meticolosa del disegno accademico trasformandosi in un universo astratto denso e pregnante reso un pò orgiastico dai colori intensi e cangianti di un immaginario beat, fa il resto, ed è ancora una volta, soprattutto per questo, davvero “grande cinema”.
Tornando alla forma e allo stile dell’opera, si può dire dunque che dal tempo diegetico più tradizionale del dibattito processuale, passando per quello rarefatto della finta intervista al poeta e delle riprese in bianco e nero, si arriva poi proprio nelle scene animate, a una temporalità inafferrabile e indefinita, in grado di restituire tutta la travolgente attualità provocatoria dell’opera letteraria. Un film che riesce a giocare con straordinaria abilità proprio con i generi e con il labile confine tra documento, finzione e “ricostruzione” (non è merito di poco conto essere riusciti a mantenere un equilibrio quasi perfetto), e che per come è costruito, ci permette di giudicare non solo in negativo il passare del tempo e l’evolversi della storia, e in questo, se è vero come spesso si avverte, che la paura - e di conseguenza l’avversione, il rifiuto, quasi la criminalizzazione – è figlia non solo dell’ignoranza e del pregiudizio, ma anche della mancanza di familiarità con le cose ed i comportamenti, si potrebbe a questo punto chiosare che se vogliamo davvero che le cose cambino e si evolvano, si deve provare a rischiare anche in prima persona: più i gay riusciranno ad essere aperti con gli altri rispetto alla propria sessualità, non la nasconderanno negandola al mondo esattamente come ha fatto Ginsberg con la sua arte e la sua vita, più la società dovrà rendersi conto e prendere coscienza, che etichettare qualcuno semplicemente per una preferenza sessuale, è pura follia, poiché altri sono i valori fondanti di ogni esistenza (già Kinsey ci aveva provato a dirlo e a divulgarlo con i suoi studi e i suoi rapporti, e ce l’avrebbe sicuramente fatta, se il suo lavoro non fosse stato bloccato anzitempo ormai quasi un secolo fa).
Carl Solomon! I'm with you in Rockland
where you're madder than I am
I'm with you in Rockland
where you must feel very strange
I'm with you in Rockland
where you imitate the shade of my mother
I'm with you in Rockland
where you've murdered your twelve secretaries
I'm with you in Rockland
where you laugh at this invisible humour
I'm with you in Rockland
where we are great writers on the same dreadful
typewriter
I'm with you in Rockland
where your condition has become serious and
is reported on the radio
I'm with you in Rockland
where the faculties of the skull no longer admit
the worms of the senses
I'm with you in Rockland
where you drink the tea of the breasts of the
spinsters of Utica
I'm with you in Rockland
where you pun on the bodies of your nurses the
harpies of the Bronx
I'm with you in Rockland
where you scream in a straightjacket that you're
losing the game of the actual pingpong of the
abyss
I'm with you in Rockland
where you bang on the catatonic piano the soul
is innocent and immortal it should never die
ungodly in an armed madhouse
I'm with you in Rockland
where fifty more shocks will never return your
soul to its body again from its pilgrimage to a
cross in the void
I'm with you in Rockland
where you accuse your doctors of insanity and
plot the Hebrew socialist revolution against the
fascist national Golgotha
I'm with you in Rockland
where you will split the heavens of Long Island
and resurrect your living human Jesus from the
superhuman tomb
I'm with you in Rockland
where there are twenty-five-thousand mad comrades
all together singing the final stanzas of the International
I'm with you in Rockland
where we hug and kiss the United States under
our bedsheets the United States that coughs all
night and won't let us sleep
I'm with you in Rockland
where we wake up electrified out of the coma
by our own souls' airplanes roaring over the
roof they've come to drop angelic bombs the
hospital illuminates itself imaginary walls collapse
O skinny legions run outside O starry
spangled shock of mercy the eternal war is
here O victory forget your underwear we're
free
I'm with you in Rockland
in my dreams you walk dripping from a sea-
journey on the highway across America in tears
to the door of my cottage in the Western night
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