Regia di Teinosuke Kinugasa vedi scheda film
All'età di trent'anni (e con un curriculum registico che già contava una trentina di film realizzati in soli quattro anni, dopo gli esordi come attore specializzato in ruoli femminili), Teinosuke Kinugasa realizza con il leggendario Kurutta ippêji ("Una pagina di follia") una delle assolute punte di diamante dell'avanguardia cinematografica giapponese della metà degli anni Venti, ispirato da quella "Scuola delle Nuove Percezioni" ("Shinkankaku-ha"), fondata dal futuro Premio Nobel Yasunari Kawabata (che qui firma la sceneggiatura adattando, insieme a Kinugasa e a Minoru Inozuka, un suo racconto breve), da Riichi Yokomitsu e da altri giovani scrittori, che, aprendo all'Occidente e auspicando una maggiore oggettività scientifica, avviarono il processo di superamento delle correnti post-naturalistiche della letteratura giapponese. Considerato perduto per decenni (come tanti altri capolavori del cinema giapponese tra l'epoca del muto e gli albori del sonoro, distrutti a causa del terrificante terremoto di Tokyo del 1923 o durante la seconda guerra mondiale) finchè lo stesso Kinugasa non ne ritrovò una copia, seppur incompleta, nel 1971, girato nell'arco di un mese con un budget ridottissimo (per ovviare alle ristrettezze economiche e alla scarsità delle attrezzature, Kinugasa, qui anche produttore, dipinse d'argento le pareti dello studio per compensare la scarsità delle lampade e delle luci di scena, mentre gli stessi attori, che dormivano direttamente sul set o negli uffici, contribuirono all'allestimento delle scenografie) che non impedì, però, al film di riscuotere un successo strepitoso sin dalle prime proiezioni in pubblico (e di riassestare le finanze del regista, prossime alla bancarotta), "Una pagina di follia" mutua dall'espressionismo cinematografico tedesco (nonostante Kinugasa abbia affermato più volte di non aver mai visto Il gabinetto del dottor Caligari) il gusto visionario per la rappresentazione dell'incubo, coniugandolo con le sperimentazioni sul montaggio dei surrealisti francesi e dei formalisti sovietici. La stessa vicenda narrata, infatti, stratificata e destrutturata fin quasi all'incomprensibilità, viene ricomposta pian piano agli occhi dello spettatore con strabiliante maestria, tra ellissi narrative di affascinante suggestione e l'impiego di qualsiasi tecnica cinematografica esistente all'epoca. E se la trama potrebbe comunque essere sintetizzata in poche parole (descrivendo i tentativi del custode di un manicomio di accudire sua moglie, ammalata e ricoverata nello stesso ospedale, finendo per rimanere coinvolto in una rivolta degli altri pazienti), ben più ostico si rivelerebbe il tentativo di spiegarne e descriverne gli sviluppi drammaturgici (perchè la moglie del custode è rinchiusa in manicomio? Quale terrificante segreto nasconde?), travolti e contemporaneamente alimentati dall'audacia visionaria delle scelte stilistiche applicate da Kinugasa, che lentamente ma inesorabilmente finiscono per risucchiare lo spettatore nel vortice di follia dei suoi personaggi. Scelte, ad esempio, come quella iniziale di non servirsi delle didascalie (già sperimentata da Murnau in L'ultima risata), dettata anche dal fatto che, come per la maggioranza dei film muti giapponesi, la proiezione nelle sale veniva accompagnata dalle voci narranti dei "benshi", veri e propri attori posizionati ai lati della platea ed a cui era affidato il compito di "raccontare" il film e recitare i dialoghi, operazione che se da un lato incontrò il favore del pubblico (tanto che molti spettatori si recavano al cinema non attratti dal il film in sè ma per ascoltare le interpretazioni dei "benshi"), dall'altro causò un vero e proprio ristagno della creatività tra registi e sceneggiatori, intrappolati dalle ingerenze dei "benshi" (che non gradivano la frenesia dei movimenti di macchina e degli stacchi delle inquadrature) a rendere più statica possibile la messinscena e i movimenti degli attori. Kinugasa, affrancandosi il più possibile dai canoni stilistici del cinema dell'epoca, spalleggiato da Kawabata e dalla sua "Shinkankaku-ha", "strappa" e travolge la narrazione con continui flashback temporali, scarti drammaturgici e ribaltamenti di senso e dei punti di vista, immergendola in un tripudio visivo di immagini sfocate, sovraesposizioni della pellicola, effetti ottici, sovrimpressioni, dissolvenze, soggettive, prospettive distorte, sequenze oniriche e surreali alternate all'iperrealismo più sfrenato, governate stilisticamente dalle vorticose evoluzioni del montaggio e dal dirompente talento dell'autore. Un'opera modernissima per vitalità di ispirazione e lucidità di sguardo, un tour de force virtuosistico in cui Kinugasa, partendo dalla descrizione delle deprimenti condizioni dei vita dei pazienti del manicomio, lasciando affiorare le storture della società del tempo, arriva ad esplorare i sottili confini che separano la realtà dall'immaginazione, un ribollente magma visivo reso ancor più inquietante dalla magnifica e spettrale fotografia di Kôhei Sugiyama e dalla strepitosa interpretazione del protagonista Masuo Inoue, addirittura straordinario nel rendere ancora più commovente la splendida conclusione del film. Capolavoro assoluto.
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