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Alamar

Regia di Pedro González-Rubio vedi scheda film

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La recensione su Alamar

di yume
9 stelle

Un padre e un figlio, un mondo incontaminato, un eterno ritorno alle radici per poter esplorare il cielo

locandina

Alamar (2009): locandina

 

Film low budget presente in poche sale dal 25 maggio, Alamar (voce spagnola per al mare) del messicano/belga Pedro Gonzales Rubio, arriva in Italia a otto anni dalla nascita per volontà di Barz and Hippo, Rossosegnale e Ahora Film.

Inserito nella bella rassegna di cinema spagnolo 2017, festival itinerante alla sua decima edizione visibile in poche città (Torino, Trento, Trieste, Treviso, Senigallia, Perugia, Roma, Reggio Calabria), è una di quelle felici avventure della visione per cui bisogna essere sempre riconoscenti al cinema.

Attori non professionisti, autore e regista tuttofare, dal soggetto alle riprese, salvo quelle subacquee, sceneggiatura e montaggio, Alamar ha la brevitàdel documentario e la profondità delle storie vere.

 

Alamar (2009): Clip 1 Originale | Sottotitoli Francese

La storia

Un giovane padre messicano di antica origine Maya (Jorge Machado) trascorre due settimane con il figlio Nathan di cinque anni presso il Banco Chinchorro, una barriera corallina nei Caraibi messicani dove vive il nonno Matraca,vecchio pescatore che esercita la pesca con metodi antichi. Il bambino farà questa esperienza di vita nella natura quindi tornerà dalla madre a Roma.

 

Gonzales Rubio immerge i personaggi in un habitat straordinario dove Nathan vive una tappa formativa unica nella sua giovane vita, sulla soglia di un’età evolutiva in cui comprendere, spiegare e controllare il mondo circostante è parte integrante dello sviluppo relazionale/cognitivo di un bambino.

All’esperienza di un mondo incontaminato, così sideralmente lontano da quello dove vive con la madre, Roma, si aggiunge la scoperta del padre, figura maschile di riferimento per il suo valore simbolico ed educativo nella costruzione della propria identità e capacità di progettare il futuro.

Nel seguire le meravigliose immagini di questo film in cui lo scenario naturale si integra perfettamente al movimento dei personaggi, il pensiero corre agli studi di Claudio Risè, psicanalista di fama che un decennio fa pubblicò “Il Padre.L’assente inaccettabile”, facendo il punto sui rischi di una società che ha quasi del tutto rimosso tale figura dall’educazione dei figli.

Il Padre/Creatore, la figura che, sola, può rispondere all’eterna domanda “Da dove vengo?”.

Il Padre come radice, dunque, e anche come “testimone della ferita”, quella della rottura della simbiosi con la madre.

Il padre, in quanto promotore di creazione, è fin dall’inizio colui che mette il bambino nel mondo attraverso la fecondazione dell’ovulo …L’allontanamento della figura paterna non riguarda solo la dimensione individuale ma anche la dimensione più ampia della società occidentale. La società senza padri appare quindi come un mondo che ha smarrito il senso religioso e, con esso, la capacità di dare significato alla propria vita.”

Non sembri peregrina questa digressione in ambito psicologico, Alamar è un film che si apre a letture multiple e il suo valore risiede nella capacità di ricondurle tutte ad un segno comune, che è spessore di contenuti, bellezza di immagini, forte carica empatica prodotta dal processo mimetico che proietta lo spettatore in un mondo che forse non vedrà mai, ma che consola sapere che è reale.Inevitabilmente Nathan dovrà tornare alla separazione, all’assenza, ma vivere, anche se per poco, dove la natura torna ad essere la vera madre dei suoi figli gli ha insegnato i segreti di un’alchimia della vita che forse potrà aiutarlo nel lungo futuro che lo attende in un mondo tanto diverso e lontano.

Solo così Nathan potrà imparare a suonare “l’arpa che non ha corde” , lo strumento magico che il saggio zen Daigo Ryo descrive con semplicità disarmante:

"Di notte, nel silenzio della capanna, / suona l'arpa che non ha corde. / La sua melodia sale al cielo col vento: / la sua musica si unisce a quella del torrente; /risuona nell'intera vallata, / mormora nelle foreste e nelle montagne. / Se uno non chiude gli orecchi, / non può udire questa musica silenziosa."

 

Eppure, nonostante la pienezza di problematiche a cui la narrazione visiva rimanda e la molteplicità delle riflessioni che nell’osservatore nascono spontanee, è integra la capacità del film di conservare il suo statuto autonomo di “impero dei segni” a cui non resta che abbandonarsi godendone.

Soccorre a questo punto una delle definitive considerazioni di Walter Benjamin sull’arte e la sua capacità di comunicazione:

Non vi è nulla che assicuri più efficacemente una storia alla memoria di quella castigata concisione che preclude l’analisi psicologica. E quanto maggiore è la naturalezza del processo mediante il quale il narratore tralascia le sfumature psicologiche, tanto più la storia ambirà ad un posto nella memoria dell’ascoltatore, tanto meglio essa si integrerà con la sua personale esperienza, tanto maggiore sarà la propensione dell’ascoltatore a ripeterla a qualcun altro prima o poi… La narrazione infatti non è che l’arte di ripetere storie.” (W. Benjamin, Il narratore. Riflessione sulle opere di Nicolai Leskov)

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