Regia di Yoji Yamada vedi scheda film
Ototo. Fratello. Tetsuro, nella sua vita, ha forse fatto una sola buona cosa: ha trovato il nome da dare alla figlia di Ginko, la sua sorella maggiore. L’ha chiamata Koharu, che significa inizio di primavera. Un nome antico, passato di moda, ma ispirato da una delle storie che Tetsuro un tempo interpretava sul palcoscenico. Quell’uomo è sempre stato un attore, anche nella vita reale: un amante della messa in scena, della caricatura, del chiasso e degli eccessi. Un pagliaccio divertente, per la sua nipotina; un buffone disturbatore, invece, per gli altri parenti. Un tipo che non si può invitare a nessuna festa, perché inevitabilmente si ubriaca e si mette a dare spettacolo. Eppure il suo cuore è grande. Quando Ginko, ancora giovane, era rimasta improvvisamente vedova, si era trasferito da Osaka e Tokio per poterle stare vicino, ed aiutarla ad allevare la sua bambina. Peccato che la sua sregolatezza, alla lunga, l’avesse reso insopportabile, tanto da indurre la donna a mandarlo via. Tetsuro è sempre stato la classica pecora nera, l’elemento deviante in grado di rovinare l’immagine della famiglia: una figura da commedia, che con le sue folli intemperanze fa ridere noi spettatori, mentre gli altri personaggi vanno su tutte le furie e si disperano per la vergogna. Il film inizia con l’imbarazzante show in cui quell’impudente istrione si produce durante il matrimonio di Koharu: il ricevimento va a monte, e questo è solo il segno premonitore di altre sventure che, di lì a poco, colpiranno la ragazza e sua madre. Tetsuro è un po’ rompiscatole, un po’ menagramo, la sua presenza è sempre molesta, eppure c’è qualcosa, in lui, che lo rende adorabile. Koharu e Ginko non possono dimenticarlo, né sottrarsi al dovere di aiutarlo quando si trova nel bisogno, o di cercarlo quando scompare. Questo film è dedicato alla scoperta del risvolto positivo e profondo di un rapporto che nasce all’insegna dell’infelicità e dell’incomprensione. Ginko dovrà farsi strada attraverso la giungla del rancore, e Tetsuro superare l’orgogliosa chiusura del reietto, per fare in modo che il legame fraterno riesca a sopravvivere, e a vincere su tutto. Il lieto fine, adombrato dalla morte, giungerà come l’epilogo di un dramma scaturito dalla disillusione: un percorso irto di difficoltà e cosparso di amarezza, però mai privato della voglia di andare avanti e di darsi una seconda possibilità. Il fratello lontano, eppure sempre incombente, come minaccia alla tranquillità domestica, rappresenta il male inevitabile, che deriva dalla fallibilità umana, e non deve pregiudicare la capacità di amare. È l’incarnazione dell’errore contro cui nessuno ha diritto di scagliare la prima pietra, soprattutto chi, in tal modo, andrebbe a versare il suo stesso sangue. Il senso morale di Yasujiro Ozu, che puntava sul dialogo e raccomandava il perdono, si riaffaccia in questo film con una gradevole velatura romantica, che ne addolcisce il realismo senza attenuarne l’intensità emotiva e la sensibilità psicologica. La guerra che prepara la pace, e che nella filmografia del grande maestro giapponese si combatteva soprattutto a parole, sceglie questa volta la via del silenzio, delle offese trattenute, dei sottintesi che, nella loro ambiguità, riservano un provvidenziale margine al dubbio. La superficie è appena mossa dall’inquietudine, mentre, sul fondo, i sentimenti gorgogliano in un canto sommesso: è la bellezza nascosta, che si mantiene al riparo dal lato volgare della convenienza, per riemergere, timorosa, quando gli echi del mondo finalmente tacciono.
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