Regia di Roman Polanski vedi scheda film
Pensandoci a posteriori, il ghost writer è il personaggio più caratteristico della filmografia polanskiana: l’uomo che non c’è, o meglio che finge di non esserci, che cerca di mimetizzarsi per sopravvivere in un mondo di mostri. Il grand’uomo con cui entra in contatto per motivi di lavoro si rivela dapprima un prevedibile abisso di inanità, poi un criminale di guerra; poi le carte si sparigliano come i pezzi di un puzzle, mentre incombe un senso di minaccia costante e fra i contorcimenti della trama non si sa più di chi potersi fidare. Polanski non mi è umanamente simpatico, ma devo dire che sa vendicarsi con stile: non si limita a buttare lì due o tre cosette sulla politica estera americana (il rifiuto di riconoscere la corte internazionale dell’Aia, condiviso con i peggiori stati canaglia; le torture e le detenzioni illegali nell’ambito di quella che si è convenuto di chiamare “guerra al terrorismo”) ma raffigura la nuda essenza del potere, un bunker freddo e vuoto in una landa squallida e desolata. E l’uomo solo di fronte al potere, ora come ai tempi de I tre giorni del condor, soccombe con l’onore delle armi, ma soccombe. È quasi irrilevante che Ewan McGregor fornisca una delle sue migliori interpretazioni di sempre, che Pierce Brosnan sappia ironizzare sulla propria immagine di giustiziere planetario, che Kim Cattrall mostri di essere in eccellente stato di conservazione. Un grande, grandissimo film, al cui confronto le riflessioni politiche della Hollywood contemporanea, anche nella sua versione illuminata e autocritica stile Nella valle di Elah o Le idi di marzo e con l’unica possibile eccezione di W., sembrano i timidi farfugliamenti di chi non osa dire tutta la verità. Un solo difetto: quei titoli di coda avrebbero avuto più senso all’inizio, per dare un suggerimento al pubblico...
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