Regia di Roman Polanski vedi scheda film
Ewan McGregor è il nuovo ghost writer assunto dalla casa editrice Rhinehart per scrivere l'autobiografia di Adam Lang (Pierce Brosnan), ex primo ministro britannico ("Tutti hanno votato per lui: non è stato un politico, è stato una moda"): l'assistente di Lang che si occupava del lavoro è morto misteriosamente ("Incidente, suicidio... chi se ne frega: l'ha ucciso quel libro") e ora gli editori, che hanno sborsato l'ingente cifra di dieci milioni di dollari per acquisire i diritti di pubblicazione delle memorie, hanno fretta di lanciare il futuro best-seller sul mercato. Per il ghost writer si tratta di un incarico allettante: 250000 dollari più le spese per un mese di lavoro su un manoscritto "già scritto" e da rendere soltanto più adatto al grande pubblico. L'atmosfera, però, non è delle migliori: Lang, infatti, è nell'occhio del ciclone, accusato di aver autorizzato, cinque anni prima, l'uso illegale delle forze speciali inglesi per catturare in Pakistan quattro presunti terroristi di Al Qaeda e consegnarli alla Cia, che poi li torturerà brutalmente. Lo scrittore, comunque, parte per gli Stati Uniti e raggiunge Lang, sua moglie Ruth (Olivia Williams) e il suo staff, capeggiato dalla segretaria Amelia Bly (Kim Cattrall), nella villa-bunker sull'oceano messa a loro disposizione dall'editore. Legge il manoscritto ("Diciamo che bisogna lavorarci: le parole ci sono, ma sono nell'ordine sbagliato"), intervista Lang, ascolta le confidenze di Ruth, assiste a litigi familiari, scenate di gelosia, discussioni e sfoghi furibondi, mentre infuriano la battaglia politica tra Lang e il suo principale accusatore, l'ex ministro degli esteri britannico Richard Rycart (Robert Pugh), e il tam tam mediatico sullo scandalo. Non solo: a forza di leggere, ascoltare e osservare, il ghost writer scopre che dietro il castello di ricordi di Lang si annida più di un mistero e, nonostante le pressioni della casa editrice abbiano ridotto a sole due settimane il tempo a disposizione per completare il lavoro, inizia a indagare sulla morte del suo predecessore. Sotto un cielo perennemente grigio, spesso squassato da violenti temporali, ne ripercorre piste, indagini e sospetti, individuando in un professore di Harvard, Paul Emmett (Tom Wilkinson), compagno di studi di Lang, l'ultimo uomo ad averlo incontrato ancora in vita. Ma le macchinazioni e i misteri che lo scrittore è convinto di aver smascherato definitivamente, riveleranno ben presto una ancor più diabolica tela di intrighi.
L'uomo nell'ombra è, insieme a Oliver Twist, il peggior film di Polanski degli ultimi dieci anni. Quattro stelle, però. E non per particolare stima o riconoscenza cinefila verso l'autore, ma perchè, paradossalmente, L'uomo nell'ombra è anche, tra le sue ultime (e senza nulla togliere alle superiori qualità di Il pianista), la sua opera più profondamente riconoscibile come "polanskiana". Maniera, allora? Anche, senz'altro: impossibile negare, infatti, che ben precise scelte stilistiche siano concettualmente innescate da (e su) glorie pregresse, quindi più vicine all'esercizio che al battito d'ali dell'atto creativo. Ma è anche innegabile che, all'interno della sua scarna filmografia dell'ultimo decennio (quattro titoli in tutto), Polanski non era ancora riuscito a (ri)proporsi con tale irruenza. Forza, energia, che, però, non appartengono nè alla forma e nè alla scrittura: è il "messaggio", stavolta, ad essere centrale. Di nuovo un thriller: approccio orgogliosamente old style, "classico", ma non verso il genere, perchè come thriller classico L'uomo nell'ombra è incommentabile. L'essenzialità dell'approccio, invece, è rivolta allo scheletro di un intero corpus cinematografico (il proprio) e alle pulsioni che ne hanno sotteso ogni evoluzione tematica e stilistica: L'uomo nell'ombra è il film, fascinoso e imperfetto, con cui Polanski torna a volgersi verso l'uomo moderno e a irriderne l'assurda ostinazione ad ammettere la presenza metafisica del Male. Senza gli eccessi ridondanti di La nona porta ma con soltanto il desiderio di giocare con il mystery, il regista polacco si concentra sul fascino evocativo dell'ambientazione, continuando a raccontare il Male (e l'oppressione del Potere) in ogni sua (in)sospettabile, congenita, velenosa ramificazione e a cantare il fallimento dei suoi Eroi, indagatori delle tenebre antihitchcockianamente destinati alla sconfitta. Incorniciato nel "minaccioso" smalto cromatico della fotografia di Pawel Edelman, che dona consistenze ancora più spettrali alla claustrofobica ambientazione, contrappuntato dall'ottima colonna sonora di Alexandre Desplat e magistralmente interpretato dall'ottimo cast d'attori, a partire da un convincente Ewan McGregor fino a una magnifica Olivia Williams, passando per il sempre impeccabile Tom Wilkinson e arrivando alle brevi apparizioni di James Belushi nei panni di John Maddox, il direttore generale della Rhinehart, di Timothy Hutton in quelli di Sidney Kroll (l'avvocato di Lang), e di Eli Wallach, che appare in un piccolo cameo, L'uomo nell'ombra si apre e si chiude con due omaggi: a Hitchcock, nell'incipit (l'approdo del traghetto, la macchina abbandonata, il cadavere sulla riva) e a Kubrick, nello splendido colpo di coda finale (le pagine dell'autobiografia di Lang che svolazzano in strada come le banconote insanguinate di Rapina a mano armata). Nel mezzo, uno spettacolo con molti, grossolani difetti, tutti originati dall'errore imperdonabile commesso da Polanski: quello, cioè, di essersi affidato alle pagine mediocri di un ancor più mediocre romanziere, il Robert Harris di Fatherland e Enigma. Il plot essenzialmente "giallo", infatti, imbarca acqua da molte parti, il crescendo di tensione che dovrebbe preludere al gran finale si rivela meno incalzante delle aspettative e alcune soluzioni narrative si trincerano dietro modeste (e schematiche) progressioni drammaturgiche. Affermare, però, per "salvare" criticamente il film, che l'efficacia del plot non sia così rilevante, sarebbe senz'altro un colpevole azzardo, soprattutto perchè Polanski dimostra di esserne consapevole e interviene direttamente sulle debolezze del testo, addensando sugli scivoloni dell'intreccio le nubi enigmatiche del mistero (quindi, regia attentissima ed esasperazione della trasfigurazione simbolica di situazioni e atmosfere - il clima ostile, la folla inferocita fuori dalla villa). In questo senso risulta fondamentale l'attenzione dell'autore allo spaesamento di Ewan McGregor. Spaesamento per tutto e sin dall'inizio: per l'incarico appena ottenuto e l'imminente volo transoceanico che lo attende, per il furto del manoscritto davanti alla sua abitazione, per le condizioni ostiche in cui è costretto a lavorare (senza, tra l'altro, neanche poter utilizzare il computer), per le incomprensibili stranezze che gli accadono davanti agli occhi e per quelle, invece, nascoste tra i segreti del passato e che, in un crescente miscuglio di stupore e confusione, si svelano diabolicamente. È in questi termini, quindi, che il fastidio suscitato dalle cadute a vuoto e dalla convenzionalità dell'impostazione riesce progressivamente (e finalmente) a stemperarsi: ma ancora non basta, perchè sarà soltanto nel finale che il film ritroverà toni e guizzi adeguati per lasciar affiorare, con invadente insolenza, quel prepotente senso di inquietudine che appartiene da sempre al cinema di Roman Polanski. Cinema che, con L'uomo nell'ombra, non intende farsi scoprire: l'impellente esigenza del suo autore, infatti, è soltanto quella di farsi riconoscere. Orso d'Argento al Festival di Berlino.
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